In quello spazio tra sogno e veglia: la memoria luminosa di Chagall a Palazzo dei Diamanti

L’arte senza etichetta di Chagall tra le sale dei Diamanti è la soddisfazione di un cucchiaio di mascarpone cremoso su una fetta di tenerina leggermente tiepida.
Sala Opéra Chagall Mostra Ferrara Palazzo Diamanti Sala Opéra Chagall Mostra Ferrara Palazzo Diamanti
Dalla cartella stampa della Fondazione Ferrara Arte
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Il grande momento è arrivato. Il Palazzo dei Diamanti è arricchito (sì, ulteriormente) dalla mostra Chagall, testimone del suo tempo, visitabile fino all’8 febbraio 2026; ed è importante non perdere l’occasione per vederla. L’arte senza etichetta di Marc Chagall, tra le sale di un palazzo che rappresenta egregiamente il patrimonio Unesco della nostra città, è la soddisfazione di un cucchiaio di mascarpone cremoso su una fetta di tenerina leggermente tiepida. 

Questa mostra restituisce un racconto finalmente esaustivo di un artista così complesso – testimone del suo tempo, appunto -, e spesso apprezzato per caratteristiche che non gli appartengono del tutto. 

Dalla cartella stampa della Fondazione Ferrara Arte

Il percorso egregio ideato da Paul Schneiter, curato dallo stesso Schneiter e da Francesca Villanti, e presentato dalla Fondazione Ferrara Arte, non tralascia nessun dettaglio. In un tempo che, come dice il comunicato stampa della mostra, “sembra sottrarsi alle leggi della fisica”, la poetica dell’artista è in grado di descrivere alla perfezione una visione tanto intima quanto collettiva del secolo breve. “L’arte da l’opportunità di non restituire una cronaca lineare, ma di seguire un tempo interiore. Il tempo dell’arte è libero di narrare una fase affettiva” spiega la curatrice Villanti nella sua presentazione in conferenza stampa. È una memoria profonda, coinvolgente e condivisibile a guidare il pubblico tra le sale, mentre gli occhi corrono tra le pennellate più imprevedibili.

La sua storia interiore, una storia che intreccia cronologia e sogno, inizia effettivamente a Vitebsk, nella comunità ebraica rurale che l’ha visto nascere, e da lì si sposta solo fisicamente. I dettagli di un paese che conserva nell’anima sono vivi e tangibili nella sua opera. Dalla Russia di Vitebsk porta con sé la presenza costante di animali, il profilo della città, le case in legno, le cupole ortodosse, i rabbini e i musicisti della tradizione.  

Eppure è a Parigi che l’arte di Chagall prende il volo, come i suoi soggetti, in una favola: la consacrazione dell’artista arriva con la commissione delle illustrazioni de Le Favole di La Fontaine. La dimensione giusta, in incisioni ad acquaforte che riempiono due sale di vera e propria meraviglia. Ancora una volta, una poetica così personale al servizio di verità universali che non potrebbero essere tradotte in immagini in maniera più magistrale.

Dalla cartella stampa della Fondazione Ferrara Arte

Il percorso museale continua spiegando quanto la religione abbia un ruolo fondamentale nell’interpretazione della realtà per Chagall. Nell’epoca della persecuzione nazista, e il conseguente esodo, l’artista rilegge l’Esodo biblico dall’Egitto cristallizzando la contemporaneità in mito e esperienza universale. Il pubblico osserva la storia che si ripete, e troverà modo di riflettere ancora, lasciandosi rapire dal linguaggio luminoso delle Vetrate di Hadassah, accompagnato dalla sonorizzazione perfetta, all’inizio della seconda porzione di mostra, dopo il famoso corridoio affacciato sull’esterno.

Dalla cartella stampa della Fondazione Ferrara Arte

La morte dell’amatissima moglie Bella, la depressione, e l’esilio in America durante l’Olocausto, segnano senza sorpresa l’arte di Chagall che, rientrato a Parigi, ritrova il terreno fertile di una città per lui fondamentale. Fare i conti con una nuova memoria diventa necessario, ma con libertà e consapevolezza. Il reale si intreccia con una visione così nitida da posizionarsi tra sogno e veglia; si tratta di una porzione di realtà mai vista, tra forme essenziali e simboli intimi che interpretano il pensiero di tutti.  Parigi riflesso del mio cuore” è la frase di Chagall che restituisce in maniera più chiara – e pura – il legame con il luogo che lo trasforma nuovamente, con delicatezza. 

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Qui si inserisce in maniera organica una delle sale più coinvolgenti del percorso museale, quella dedicata al rapporto dell’artista con la capitale francese, e soprattutto con l’Opéra, che Schneiter definisce “la migliore condizione del visitatore per poter capire quello che Chagall voleva dirci a livello emotivo”. Le opere raccontano un luogo ideale e reale allo stesso tempo, introspettivo ma aperto, bloccato in un’istantanea, ma incredibilmente vivo. La musica completa l’installazione che dovrebbe essere immersiva e invece, suggerisce Schneiter, ci invita all’osservazione esterna, lucida e concentrata di uno spettacolo capace di coinvolgere ogni senso.

Dalla cartella stampa della Fondazione Ferrara Arte

Nonostante la ricostruzione della memoria, e la ritrovata libertà, il senso di identità collettivo ha risentito degli scossoni della storia. Nulla si è perso, ma tutto si è moltiplicato. Come il colore si fonde con le pennellate, i volti si sdoppiano, si intrecciano, si sovrappongono. Nasce così la produzione più nota dell’artista, in una metamorfosi romantica e nostalgica. Il volo apparentemente leggero dei suoi personaggi e degli oggetti, nasconde la dolce precarietà di una magia quotidiana. Ecco che la rappresentazione del circo diventa un linguaggio nuovo per raccontare le acrobazie della vita; la maschera del clown è una rivelazione, reale quanto il volto stesso. I colori si rinforzano, in equilibrio sul filo per non rientrare nel movimento fauvista. Le figure cambiano, come cambiano le persone e come cambia il mondo. Materie, luci, tinte: tutto ha un ruolo nel racconto visivo di Chagall, e questo momento di massima ricerca e creatività permette di rendere protagonista ogni dettaglio.

Dalla cartella stampa della Fondazione Ferrara Arte

Negli anni 50 del Novecento, Chagall si sposta nel sud della Francia avvicinandosi al mare. Quella affacciata sul Mediterraneo è una dimensione che gli appartiene, dove ritrova casa. Un linguaggio ormai consolidato gli consente di lasciarsi ispirare da luci e colori, proseguendo la sua costante sperimentazione. 

Dai paesaggi, ai giardini, alle composizioni di fiori. La penultima sezione della mostra è dedicata al tema floreale e ai simboli che cela. Un vaso nomade, spostato da un luogo all’altro, emblema dello sradicamento, ma che risulta di rara bellezza in ogni contesto. Una “condizione eterna di impermanenza” viene definita in presentazione: la ricerca di un artista che ha rappresentato una realtà alternativa in contrapposizione alle difficoltà del mondo, semplificando il racconto.

“Chagall è stato capito dai poeti: anche noi abbiamo voluto superare la visione di Chagall con i soli occhi”, dice la curatrice Villanti, e questo è chiaro perdendosi tra le sale. La sua arte è una forma di resistenza al dolore, alla morte, alla mancanza di accettazione, attraverso questa memoria rielaborata; attraverso l’osservazione di quello spazio che si crea tra sogno e veglia.

L’ultimo messaggio arriva alla fine del percorso di visita, con il dipinto La Pace, del 1949. Il pensiero che l’arte possa superare la rabbia e lenire il dolore, oggi risuona ancora. In quello spazio tra visibile e invisibile, la memoria è resistenza, è bellezza, è strumento di comprensione. Di nuovo torna chiaro il linguaggio universale di Chagall; se solo fossimo tutti in grado di comprenderlo.

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  1. Ho visitato la mostra ieri, 18 Ottobre. Estremamente affollata, negli spazi notoriamente stretti del Palazzo dei Diamanti. Allestimento discutibile, in alcune sale è obbligatorio essere sommersi da effetti audio talmente rumorosi che non si riesce nemmeno a sentire l’audioguida. Di dubbio gusto la “ricostruzione” dell’Opera Garnier e delle vetrate della sinagoga dell’ospedale Hadassah; sono delle copie digitali a grande formato, una volta si sarebbe detto “sono dei falsi”. La mostra vanta più di 200 opere, di cui, però, 100 sono acqueforti nella sala con le illustrazioni delle favole di LaFontaine. In sostanza: fra folle umane, rumori e proiezioni invadenti è difficile entrare in contatto contemplativo con le opere.

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