Nel ventre del bianco abisso – intervista a Moni Ovadia

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Lo scorso 2 maggio, al termine dello spettacolo Moby Dick al Teatro Comunale di Ferrara, incontriamo Moni Ovadia, attore protagonista in scena nonché ex direttore generale proprio del nostro Teatro. Ovadia ha mostrato una generosità rara, dilungandosi a rispondere a tante domande dal camerino ad un vicino bar del centro. Un incontro ricco e sorprendentemente informale, da cui è nata quest’intervista intensa e appassionata, proprio come lui.

Moby Dick non è solo la storia di una caccia alla balena che ha mutilato il Capitano Achab, ma è la storia di una vera e propria ossessione. Ci sono stati momenti, nella sua carriera, in cui ha inseguito una “balena bianca” personale? Un progetto, un’idea, una battaglia che sembrava irraggiungibile?
Si, ho vibrato e riversato passione nella ricerca di una mia poetica teatrale. Ho visto cose meravigliose, ho ammirato tutte le grandi innovazioni dal Terzo Teatro, a Peter Brook, a Eugenio Barba. Il mio grande maestro, che io ho riconosciuto come tale, è stato un ebreo polacco, Tadeusz Kantor. Nel 1978 ho visto il suo capolavoro assoluto, “La classe morta”, con 1500 repliche in tutto il mondo, ha trionfato ovunque. Tadeusz veniva dall’arte. C’era una concezione del teatro fuori dalle logiche, era psicologismo puro.Kantor ha creato la figura dell’attore manichino, ovvero l’attore che indossa il suo ruolo. Così, partendo da Kantor, ho tentato di costruire la mia poetica. Il teatro che ho cercato di fare aveva come protagonista un’orchestrina; i miei musicisti li ho formati come attori lavorando sul loro disagio. Il mio teatro lo chiamo quindi “il teatro dell’esilio”, perché porta fuori da ciò che è la sfera del comfort. Mentre loro suonavano li facevo muovere, suonare, cantare, raccontare… volevo vedere fino a quanto si potesse spingere la poetica del musicista-attore.

Personalmente, la storia di Moby Dick mi ha ricordato molto il canto 26 dell’Inferno dantesco. Il racconto del viaggio di Ulisse verso le Colonne d’Ercole, una vera e propria sfida verso la Natura. Anche lei crede che siano simili perché entrambi puniti per aver sfidato l’assoluto e l’inconoscibile?
Certo. Entrambi sono accomunati da questa avidità di conoscenza che diventa autodistruzione. ἄπειρος è la parola greca che esprime la non accettazione dei limiti. Credo che il limite più pericoloso dell’uomo sia la sua stessa fragilità.
L’ossessione del mio personaggio, il Capitano Achab, diventa malattia. La relazione con la balena ha anche dei tratti di erotismo da quanto è morbosa e viscerale. Achab è un uomo che non è stato solo ferito fisicamente, ma soprattutto nell’anima. Però viene punito, come Ulisse.
Lo spettacolo teatrale è ambientato sul Pequod, il vascello che porta la ciurma verso la perdizione, proprio come Ulisse nella barca con i suoi compagni di viaggio, che si spingono oltre le Colonne d’Ercole.

Il mare, nell’opera, è insieme matrice e minaccia. Che rapporto ha lei con il mare? È più un luogo della verità o dell’inganno?
Il mare è il luogo dell’anima, parlo per me Moni Ovadia, non attore.
Il mare è casa mia, non ho patrie, non mi interessa. L’Italia è il mio paese ma sono nato in Bulgaria. Il mio luogo dell’anima è la Grecia, quando arrivo lì cambia tutto. Ho studiato il greco moderno per saper leggere i poeti nella loro lingua. La lingua è meravigliosa, la sua parte classica, la parte della Koinè alessandrina, la componente più popolare fatta da turchismi, venetismi e barbarismi. Io sono pazzo di questa lingua, i miei nonni paterni erano turchi.
Ogni tanto faccio 4 -5 giorni ad Atene, vado da un mio amico greco che ha studiato in Italia. Abbiamo fatto un pellegrinaggio nell’isola di Makronissos, dove sono stati concentrati i comunisti greci con ferocia, tra cui il mio poeta preferito, Yannis Ritsos. La Grecia è la mia seconda patria, e la prima non ce l’ho. Quando sento la musica greca perdo la testa. Insieme al mio amico passiamo le giornate presso il tempio di Apollo e alla sera giriamo i locali e andiamo a sentire la musica.
Una sera, mi scendevano le lacrime dalla commozione quando ho sentito una giovane ragazza cantare in lingua greca. La lingua, l’aria, il cielo della Grecia mi emozionano.

Non la spaventa mai il mare?
Lo rispetto troppo. Il mare è una forza della natura meravigliosa!
Nello spettacolo il mare è reso perfettamente. La scenografia è fenomenale. Vi sono molti giochi di luce nei momenti di transizione, e si riesce sempre a trasmettere la desolazione e il tormento. È molto bello anche quando si alternano i momenti di caldo atroce e di tempesta gelida.

Allora, nel rispettare così tanto il mare si differenzia molto dal capitano Achab, che al contrario ha una visione pessimistica, quasi leopardiana per il suo modo di vedere la natura. Mi hanno colpita molto queste frasi: “Moby Dick è una creatura demoniaca che cambia l’animo di chiunque la conosca. È una bestia che sfida il cielo ed il vuoto è bianco come lei.”
Si, Achab ed io non ci assomigliamo. Il mare lo amo molto perché mi racconta di uno spazio che non finisce. Questa massa infinita blu che va e continua continua…mi piace andare per mare, ma non per incontrare le tempeste, sono solo affascinato dallo spazio aperto. Potrei lasciarmi andare e finire trasportato dal mare. Non sono un nuotatore, ho imparato tardissimo, ma guardare il mare è una delle cose più belle della vita.

Quanto ci avete messo a preparare lo spettacolo e che clima c’era sul set?
Un mese dal clima tranquillo e divertente. Forse il miglior clima che io abbia trovato a teatro. Il regista è una persona meravigliosa ed i ragazzi del cast davvero bravissimi, ironici e simpatici. Guglielmo Ferro è preciso, tranquillo, non grida mai…insomma davvero un clima idilliaco. Mi sono innamorato del personaggio del cuoco, nei nostri dialoghi non so come faccia a non scapparmi dal ridere! Comunque, quando faccio teatro ho sempre bisogno di serenità e distensione. Se qualche attore o attrice è in difficoltà cerco di scioglierli il più possibile, li metto sottobraccio e li faccio parlare.

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Durante lo spettacolo ho vissuto un forte senso di attesa del personaggio Achab. Mi chiedevo sempre “Dov’è? Ma quando arriva?” E quando arrivava, la sua voce era così insinuante e coinvolgente…
Il suo personaggio è dosato. Ed è giusto che sia così. La figura di Achab emerge come presenza mitica e inquietante, più evocata che mostrata, per amplificare il senso di mistero e il peso della sua follia sull’equipaggio e sulla narrazione.
Per quanto riguarda la voce, grazie! Mi fa molto piacere che venga percepito questo perché c’è stato un tempo in cui io non la amavo, sono stati gli altri a farmela amare.

Voce e scrittura. Che legame ha lei con queste due dimensioni del pensiero?
La voce trasmette ciò che la scrittura non riesce. Per me è faticosa la scrittura. Sono 4 anni che devo scrivere un’orazione civile per il popolo palestinese. Comunque, finita la tournée comincerò a scrivere. Sarà a metà tra un’orazione e un pamphlet. Non voglio pormi i limiti di un saggio, non deve avere pretesa di oggettività. Deve sgorgare dall’anima, dalle viscere e dall’indignazione. Scriverò con tre coltelli, uno piantato in gola, uno nel cuore e uno nella schiena.

Melville scrive un romanzo che è quasi una sinfonia di digressioni filosofiche, poetiche e religiose. Lo spettacolo riesce a dare voce a questa pluralità?
Sicuramente non come il romanzo.  Lo spettacolo dà spazio ad elementi di riflessione, quelli sì, soprattutto sull’unione degli uomini nella nave. Quando ci si trova sulla nave si impara subito il rispetto per l’altro, lo stare insieme con i propri simili.
In Melville c’è in più un che di biblico e titanico perché vi sono testi fortemente religiosi come l’Ecclesiaste, che denunciano la vanità delle cose.

Questo dialogo tra noi mi ha trasmesso moltissimo la sua sete di conoscenza. Lei e Achab siete entrambi accomunati dal voler andare sempre oltre.
Dico solo questo: il processo di conoscenza è la più grande meraviglia che è a disposizione dell’essere umano.

In un momento dello spettacolo viene affrontata la tematica della morte fisica e dell’anima. Lei cosa pensa della morte?
Dovremmo essere educati ad una relazione con la morte come parte integrante del processo vitale. Perché il Buddha divenne illuminato? Perché capì da giovane che si moriva. La vita ha un limite e prima o poi bisogna mollare. Il “memento mori” dei frati non è lugubre come si pensa. Il limite della cultura occidentale è che c’è questa repulsione verso la morte; invece, gli orientali hanno un atteggiamento di accettazione. Noi non siamo educati a questo e ne siamo spaventati.

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