

Quando si incontra il libro giusto lo si capisce subito. La copertina incuriosisce, attira, lascia intendere qualcosa; poi la quarta svela alcuni tratti. Se persiste l’interesse, se ci si inizia a piacere davvero, basta aprire delicatamente il libro, sfogliare le prime pagine – quelle in cui ancora non ci si dice niente di importante ma si pregusta il piacere della lettura, annusando appena l’odore appagante della carta – e fermarsi sulle prime righe del primo capitolo.
Leggendo ‘Sono fortunata, l’uomo smilzo e stempiato che mi siede di fronte in questo anonimo ambulatorio medico, pneumologo di professione, è un vecchio compagno di liceo che non pretenderà nessuna parcella, ma lo sguardo accigliato con cui legge il referto della mia spirometria, dopo aver esaminato quello dell’eco al torace, non lascia presagire niente di buono’, sapevo già che sarebbe stata intesa vera. Ho riconosciuto una mano, un linguaggio, come un tratto di famiglia. La curiosità era quella che sento sempre quando incollo gli occhi all’ultima avventura dell’investigatrice privata Giorgia Cantini, mossa dalla fantasia di Grazia Verasani. Questa volta, però, mi sono immersa nella lettura con un nuovo livello di entusiasmo, sapendo che Grazia sarebbe stata ospite del Festival delle Parole Grisù 451, per la rassegna 451 Summer Reading alla Factory Grisù, e che avrei potuto farle qualche domanda prima dell’incontro.
Con tutta la mia timida euforia, ho schiacciato play sul registratore al cospetto di una dolce e disponibile Verasani. Un grande onore che devo al Festival delle Parole, che prosegue con i suoi appuntamenti estivi fino alla fine di luglio, tra la Factory Grisù e la Biblioteca Peppino Impastato di Portomaggiore.



Hai dei rituali, delle abitudini particolari quando scrivi? Dove preferisci scrivere, dove ti senti più ispirata?
Scrivo quasi sempre al computer, ma ci sono stati dei libri che ho iniziato a penna, su fogli volanti, anche a casa di amiche. Non sempre scrivo a casa mia. Iris di marzo è il mio ventunesimo libro; ho traslocato quindici anni fa: i primi libri sono nati in una casa con giardino dove avevo un’altra ispirazione.
Comunque, generalmente mi metto al computer con una serie di appunti: la scrivania è piena di carta; non possono mancare il posacenere, le sigarette, e qualcosa da bere: acqua, tè freddo, Coca Cola, per tenermi sveglia. Poi vado, lavoro.
Non ho orari fissi – mai avuti -, non ho una disciplina, anche se generalmente mi piace lavorare la mattina. Quando ero più giovane scrivevo anche di notte, ora mi rendo conto di essere più lucida al mattino. Mi sveglio presto e lavoro fino alle due o tre, poi stacco: altrimenti fumo troppo. Leggo, faccio altro. Questo, tendenzialmente, è il mio rituale.
La tua è una scrittura che va di getto la sua scrittura o è molto ragionata, passo dopo passo?
L’approccio è sempre tra la fatica e l’eccitazione. Sento l’adrenalina della scrittura come una forma di energia nervosa che poi mi lascia esausta. Ho un approccio molto fisico, assoluto. Correggo molto, tolgo molte cose in rilettura, perché vado sempre alla ricerca di una scrittura asciutta, sintetica, con un suo flusso preciso. L’unica regola che mi do è essere in un certo senso fredda. Il pathos si crea molto di più con un approccio apparentemente distaccato, anche quando in realtà sei in una full immersion. Ti suona il telefono, il citofono, ma tu non ci sei: sei in una realtà altra. Ed è un momento molto bello, anche se non ho mai pensato che la scrittura mi rendesse felice. Ho sempre pensato fosse necessaria per vivere. Scrivere mi viene naturale, l’ho sempre fatto, fin da bambina, ma creare una storia è faticoso: immedesimarsi nei personaggi, creare dialoghi, una materia coerente.
Soprattutto scrivendo noir.
Eppure, non sono una da scalette. Di ventuno libri, solo sette sono noir, anche se sono più nota per quelli. Ma non uso scalette; mi lascio andare. Le idee mi vengono mentre scrivo, spesso anche il colpevole e i depistaggi li scopro strada facendo. La fantasia mi trascina, i personaggi mi portano via con loro. Anche l’ultimo libro è nato così, in modo naturale. Non avevo idea fino all’ultimo di cosa sarebbe accaduto, chi fosse il colpevole. Non voglio fare sceneggiature. Per me il romanzo deve avere una voce, uno stile letterario preciso. E nel mio modo di fare noir, infrango regole, mescolo generi. Mi viene naturale seguire l’istinto.
A proposito del genere: ho letto che l’ultimo – Iris di Marzo – è stato definito il noir più “romanzo” della serie. Sei d’accordo?
Io prendo il noir e lo porto dove voglio, altrimenti non mi diverto. I miei riferimenti sono il polar francese, Simenon. La città è coprotagonista, il contesto sociale fondamentale. Giorgia Cantini è testimone oculare dei problemi delle persone, delle famiglie. Ho sempre voluto dare un peso alla tematica sociale: femminicidio, omofobia, ora il disagio degli adolescenti, questo mondo che gli abbiamo preparato. È quasi letteratura sociale. Poi c’è la fiction, la storia d’amore di Giorgia col capo della omicidi, che è tornato dalla moglie. Le sue amicizie, che per lei sono quasi una religione, visto che non ha famiglia.
Racconto una società, delle ingiustizie. Giorgia è un segugio della verità. Credo sia un noir in questo senso. Se ci si aspetta sangue, scene pulp, non è il libro giusto. Nei miei romanzi i colpevoli sono quasi sempre anche un po’ innocenti. Sono noir esistenziali, sentimentali: i sentimenti sono ciò che conta.


Che significa crescere con un personaggio come Giorgia Cantini?
È nata nel 2004. Sono passati tanti anni, è invecchiata con me. Anche se nella fiction lei resta sulla cinquantina, mentre io invecchio. La conosco così bene… Ha cose simili a me, ma in molte è diversa. Più passionale, più disincantata. Io forse sono meno pessimista. Lei è politicamente scorretta, anticonvenzionale. Una donna tosta, ma non una “donna forte”. Vive in un mondo di persone fragili, che lei difende. Perché anche lei è fragile.
C’è uno dei ventuno libri a cui sei più affezionata?
Sicuramente From Medea – Maternity Blues, una pièce teatrale scritta prima del 2004, che ancora oggi viene rappresentata anche all’estero. Quattro donne in scena, si parla di maternità. Poi Lettera a Dina, uscito con Giunti: forse il mio romanzo più autobiografico. Racconta un’amicizia negli anni della droga a Bologna, nei primi anni ’80, la musica, la città, l’epidemia dell’eroina che ha falciato tanti amici, tanti artisti, come Pazienza. Poi certo Quo Vadis, Baby, che mi ha dato visibilità e la possibilità di fare della scrittura un mestiere.
Mi dicono che l’ultimo è il più riuscito dal punto di vista della struttura. Io non so, ma credo che scrivere sia come il vino: non si smette mai di affinare il proprio stile.
Una piccola provocazione: tra i libri che ha citato non ci sono quelli per cui è più nota. Che rapporto hai con questo? C’è comunque gratitudine?
È sempre così. Se guardi le biografie di molti scrittori noti, il loro libro preferito è spesso quello che ha venduto meno. L’anno scorso ho scritto Hotel Madridda, su cui la mia editor, Chiara Valerio, aveva puntato molto: l’ha proposto allo Strega, e ad altri premi. Credo sia un libro che non è stato capito, ma in cui ho sintetizzato tutta la mia poetica. Si tende ad amare di più i libri meno compresi, quelli che hanno dato più ansie, più magone. Forse non è il più riuscito, ma è quello che chiude un cerchio.
Ho letto che Stephen King odia gli avverbi. Ci sono parole che eviti per scelta?
Ogni tanto trovo parole che detesto. Di solito sono quelle di moda, tipo “resilienza” o “gestire”. E anch’io con gli avverbi ho problemi. Ieri sera ho sgridato una mia allieva dells Scuola Holden, perché nel suo esercizio c’erano troppi avverbi. Non sapevo che King lo avesse detto, ma King è Dio: se lo dice lui, ha ragione.
Ultima domanda: un consiglio di lettura?
Ne ho tantissimi. Per l’estate, gli ultimi che ho letto e amato sono Yasmina Reza, scrittrice franco-algerina: La vita normale e Felici i felici, che consiglio entrambi. Per chi ama le scritture più antiche, è uscito La casa nella brughiera di Elizabeth Gaskell. Poi Le vedove di Camus di Elena Rui: se si ama Camus, ci si troverà qualcosa. Al momento non sto leggendo gialli, ma per rilassarmi leggo sempre Patterson: sicuramente leggerò il suo ultimo, a prescindere.

Nel frattempo si è riempita la platea per assistere al reading e alla presentazione. Si sta proprio bene qui nel cortile dello spazio Grisù, nonostante l’afa dell’estate ferrarese. Scende la sera e si rinfresca l’aria, per fortuna; e poi i libri sono comunque capaci di spostare la nostra attenzione dal quotidiano a qualcosa di più appagante, di distrarci dal fastidio, e lo fanno bene anche questa volta.
I 451 Summer Reading tornano a Grisù mercoledì 25 con la presentazione di La strada di casa – Figli in cerca delle origini di Melania Petriello, alle 20.30, per poi spostarsi a Portomaggiore venerdì 27, alle 18.30, con Febbre Alta e l’autore Andrea Cotti. Per scoprire il programma completo, e trovare il libro giusto, fino al 30 luglio, basta davvero seguire @festivalgrisù451 su Instagram, o Grisù 451 – Festival delle parole su Facebook.
Clelia nasce a Ferrara il 5 gennaio 1988, in una famiglia di artisti che tenta di salvare la creatura dal tremendo e precario mondo dell’arte, per più di 20 anni. A maggio 2017, nell’Aula Magna del DAMS di Bologna, mamma Alessandra-musicista e papà Franco-restauratore accettano di aver cresciuto una cantante laureata in Storia Dell’Arte. Oggi è copywriter per l’agenzia Dinamica, scrive racconti brevi per amore delle parole, e collabora con le associazioni culturali ARCI Contrarock ed Officina MECA.