Oggi, 25 novembre, ricorre la giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Un articolo non è sufficiente a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema delicato, che fin troppe volte è caduto in pasto a dibattiti mediatici, riducendolo ad una notizia di cronaca o peggio, in una mera giornata istituzionalizzata reiterata nel tempo, senza capire che combattere la violenza sulle donne è una battaglia sociale quotidiana, dove bisogna agire, oltre che educare.
Ecco allora che, percependola come materia viva, si può spostare il tema della violenza tra le mura di casa, all’attuale situazione di isolamento dovuto alla pandemia da Covid-19: mai come in questi mesi, la convivenza forzata ha ampliato il rischio alla violenza domestica e assistita. Le restrizioni in corso, implicano infatti una prolungata condivisione degli spazi con il maltrattante, rischiando di determinare l’aumento del numero di episodi di violenza, ma anche un loro aggravamento.
Le ragioni per cui il virus porta ad aumento della violenza sulle donne sono molteplici. A cominciare dal fatto che il potenziale rischio di perdere il lavoro e lo stress economico finisce con l’aumentare la rabbia sociale, che si riverbera in quella privata; la rete di protezione sociale si è poi modificata con la riduzione all’ accesso ai servizi; inoltre la riluttanza alle denunce e addirittura la difesa del persecutore a causa di un complesso di inferiorità aggravano la situazione. È fondamentale rassicurare queste donne del fatto che la rete antiviolenza è presente, attiva e sempre in grado di conferire un supporto immediato e in qualsiasi momento.
La battaglia culturale deve passare in primis attraverso educazione all’amore e rispetto dell’altro, insegnando però alle donne anche il rispetto per se stesse, dando loro la forza di riconoscere i segnali premonitori di un amore tossico, perché recidano il filo malato della dipendenza affettiva.
Paura, controllo, potere sono tre parole chiave che tratteggiano i contorni della storia narrata nel film “Ti do i miei occhi”. Un film del 2003 diretto da Icíar Bollaín, che restituisce in modo lucido a trasversale la condizione di sofferenza vissuta da tutte quelle donne che subiscono violenza fisica e psicologica, per questo è fortemente consigliata la visione in questi giorni di fermo forzato. La protagonista è Pilar, una donna che fugge da casa, luogo che per primo deve essere simbolo di riparo, certezza, protezione e che per Pilar è invece un inferno, la perversa condanna che sopporta ormai da dieci anni, il cui carnefice è il marito stesso, l’uomo che dice di amarla, ma che trasforma la sua vita in una gabbia. Scappando, la protagonista riesce a riconsiderare l’eventualità di una vita migliore, dove c’è pace e serenità e dove il lavoro e la realizzazione personale hanno un ruolo primario. È alla libertà che Pilar aspira, ma non può fare a meno di tornare dal giustiziere che gliel’ha strappata, dall’amore che tanto l’alimenta quanto la svilisce, quell’amore talmente plasmato all’odio da non poterne più riconoscere i confini.
Pilar è infatti una donna che “non vede”, questo perché ha deciso non vedere, di non prendere coscienza del martirio che sta subendo. E così Pilar torna a casa, come troppo spesso accade, cedendo al sentimento e alla calda sensazione di sicurezza e stabilità di avere qualcuno al proprio fianco. Per l’ennesima volta, ripone fiducia nelle promesse del marito-carnefice, ma non sa che è difficile cambiare un uomo profondamente nichilista, sadico, anaffettivo e che l’unico modo che ha per dimostrare virilità, è la violenza. Le sfugge che è lui ad essere l’unica vittima, che nasconde in un pugno chiuso, tutta la sua fragilità. Dietro la violenza c’è quasi sempre il bisogno di umiliare la donna, la volontà di lasciare una traccia di sé su quest’essere che si continua a considerare inferiore.
Come un giro di boa, si ripresenta il drammatico girone infernale di sempre, dove si pensa che una carezza curativa sia sufficiente a tamponare un livido, e dove sembra non esserci via di fuga. Sì perché, la spersonalizzazione e la degradazione della dignità, possono portare una donna a provare vergogna nel chiedere aiuto, o peggio, la richiesta di aiuto può rappresentare un pericolo. Ma non bisogna mai piegarsi al silenzio, all’omertà, alla paura: non denunciare significa essere complici. Pilar, ha trovato un appiglio nelle sue stesse amiche, le quali le aprono la porta della libertà, fisica e mentale, difficile da riconsiderare dopo anni di dolore, durante i quali si perde coscienza e soprattutto rispetto per se stessi.
La conclusione in positivo del film non è scontata, anzi, si tratta di un finale che troppo spesso non si verifica nella reale quotidianità di maltrattamenti. Un finale che esce dai tabù sociali, concedendo uno sguardo critico e riflessivo nei confronti di un tema importante, la cui sensibilizzazione è un bisogno prima che un dovere. Ci vuole coraggio, per non essere più prigionieri di un corto circuito affettivo che manipola e degrada, e attenzione, non bisogna arrivare ad uno schiaffo per capirlo. Lì è già troppo tardi.
Ci vuole coraggio non solo per comprendere la violenza, anche per accettare che sia originata dallo stesso uomo che amiamo. Ci vuole coraggio per aprire gli occhi e dire “basta” a quel vortice lento e distruttivo di un amore difficile da comprendere, che può rapire ma anche annullare.