“L’occhio trasfigurato ora vede”: torna a Ferrara William Congdon, pittore dell’assoluto

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Storia di un ricco borghese statunitense che visse tra Assisi (dove si convertì al cattolicesimo) e la Lombardia, dove morì nel 1998. Una vita alla ricerca di Cristo, in giro per il mondo e nell’inquietudine artistica.


Dall’«intima disgregazione» all’incontro con Cristo: William Congdon è artista ancora troppo poco conosciuto in Italia. La sua esistenza – inquieta e nomade – troverà nel nostro Paese una patria dove vivere in modo autentico la propria fede. 

William Congdon

William Grosvenor Congdon nasce a Providence, Rhode Island, il 15 aprile 1912. Figlio di due facoltosi industriali, dopo gli studi, nel ‘42 si arruola nell’American Field Service (AFS), servizio volontario di sanità e come autista di ambulanze partecipa alla battaglia di El Alamein, per poi prestare servizio nel centro Italia. «La guerra mi ha aperto all’amore (…) – dirà -, perché vengo da un ambiente chiuso, puritano, che c’era in America, che mi faceva bollire una ribellione dentro». In Italia durante la guerra «cominciavo a vivere, a riconoscermi amato». Quante croci William ha visto, quante donne, uomini, bambini inchiodati alla legge ottusa del male, carne di Cristo già redenta eppure ancora lì, nel Sabato Santo delle loro esistenze, nella notte che sembra non morire. Sempre con l’AFS, nel maggio ‘45 entra nel campo di concentramento di Bergen Belsen, appena liberato. Qui scriverà: «Questo non è un uomo / ma materia inesistente (…)». Solo nel ’48 inizia a dipingere: va a New York, per i primi 3 mesi volutamente nella miseria del Bowery, e poi altrove: «Mi sono spostato in un appartamento al 30esimo piano di Park Avenue (…). Tutta la mia vita si può ricondurre a un elementare schema della Città Nera del 1949: blocco profondo verticale, con un dialogo, un discorso dentro il blocco, coronato da una lastra di cielo, il sole che sorge», il disco d’oro che sarà segno eucaristico di salvezza. Nel ’49 la sua fama esplode grazie all’incontro con Peggy Guggenheim e Betty Parsons, assieme ai nuovi talenti della “Action Painting”, fra cui Pollock e Rothko. 

Congdon a Venezia

Da Venezia ad Assisi

Nel ’50 si innamora di Venezia, dove si trasferisce, ma nel 1951 arriva ad Assisi, dove incontra don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana, associazione missionaria e centro culturale (don Rossi che ad Assisi, 11 anni dopo, aiuterà la “conversione” di un altro intellettuale, Pier Paolo Pasolini). Nel ’56 torna a Providence per assistere la madre gravemente malata e lì scrive all’amata cugina – e nota poetessa – Isabelle (Belle) Gardner: «Sono riempito da una notte di essere e bramo un linguaggio. Quando mai tornerà? Vedi che non esisto senza di lui. Vagherò, lo troverò. Sarà lui a trovare me». Un vagare che culmina nel ’59 col ritorno ad Assisi e il battesimo: «“Cosa è successo?”, qualcuno mi domandò. “Semplicemente che Dio ha tirato l’allarme del mio treno”, risposi, “mi ha fatto scendere in Assisi e andare alla Sua casa dove mi avrebbe data l’ultima possibilità di salvezza”». Ad Assisi vi rimarrà quasi 20 anni: «l’incontro con Cristo mi fa scoprire che il suo dramma di croce è pure il mio, e questo mi porta al crocefisso tramite il ritorno alla figura umana. Mai più il vedere e il dipingere disgiunto dalla croce». Ma il suo nomadismo – segno di una profonda sete di assoluto – non si arresta: in questi anni sarà nel deserto del Sahara, a Santorini, in Guatemala, Cambogia, a Parigi, Atene, Istanbul, in India.

Black City on Gold River, Paesaggio urbano (dipinto, opera isolata) di Congdon Grosvenor, William – ambito statunitense Action Painting (sec. XX) 

Ad Assisi, però, Congdon incontra colui che diventerà un carissimo amico, Paolo Mangini, membro della Pro Civitate e, tramite lui, don Luigi Giussani, fondatore di CL. Poi va a Subiaco, nel convento abbandonato del beato Lorenzo; sull’opera “Luna 6” del 1965 – lì realizzata – scrive: «La luna, in queste notti, così piena, chiara, potente – la riconciliazione per la quale tutta la natura geme – sorge maestosamente triste, velata come se nel vago chiarore non ci fosse. Eppure è lì, come l’Ostia di Gesù nella nuvola d’incenso della benedizione». È l’alba che richiama l’elevazione dell’ostia consacrata, Luce vera contro il buio di quella «vita in scatola» fatta di surrogati, di sepolcri all’esterno «belli a vedersi, ma dentro (…) pieni di ossa di morti e di ogni putridume» (Mt 23, 27). Dovrà assistere – nel ’75 – ai bagni purificatori nel Gange per vedere con ancor maggiore chiarezza: «tutto è candidato per la Resurrezione, tutto è sacralizzato».

La vecchiaia nel milanese

A fine anni ‘70 – quando si trasferisce nella Bassa milanese, a Gudo Gambaredo, in una casa-studio (o «studio-cella») annessa a un monastero benedettino, la Cascinazza – entrerà nei Memores Domini di CL, dopo averli conosciuti a Milano (dove vive dal ’66 al ’79); a Gudo (dove risiederà fino alla morte) sperimenta il più forte tentativo nella sua vita di fratellanza concreta: «Era alla comunità e quindi a una reale vita di comunione che dovevo convertirmi». In questi stessi anni, nel ’75, nel testo “Arte: mistero di Dio nel creato”, scrive: «L’artista scopre, “alza il coperchio” dell’apparenza materiale (…) e “cava” fuori l’inerente segno di ciò che quella roccia sarà nella manifestazione» di Cristo «nella Parusia». Ma è il Crocefisso che santamente sempre lo ossessionerà. Dirà Massimo Cacciari nel 1983: «Il Crocefisso di Congdon è una carne reale, un corpo concreto che soffre. C’è davvero l’evento di una carne che muore e che, nello stesso tempo, è la carne di Dio; Dio che soffre per amore».

La mostra a Palazzo dei Diamanti, 1981

Nel 1981, la sua prima personale a Ferrara – Palazzo Diamanti –, con annessa tavola rotonda in Sala Estense che, fra i relatori, vede Giulio Carlo Argan e Renato Barilli; presente a Diamanti anche la cugina Belle, che morirà improvvisamente 1 mese dopo. In un’intervista per Litterae Communionis, rivista di CL, spiega cosa per lui rappresenta la sua mostra ferrarese: «È perché io capisca che il silenzio di vent’anni è stato non mio ma di Dio, così che sia Sua questa mia uscita. Uscita da un concetto mondano, commerciale di mostra, affinché essa sia ciò che l’arte è: immagine del Suo Volto nelle cose. Per strappare l’occhio di oggi dalla schiavitù dell’apparenza delle cose, perché si lasci prendere dalla fonte rigeneratrice della vita, che è il Volto del Creatore. Insomma, per vedere il miracolo». Nella conversione ora fattasi matura – come scrisse Testori nel 1983 presentando una sua mostra a Como -, in Congdon il corpo della terra e quello dell’uomo «non sono più qualcosa di destinato solo alla cenere» ma «qualcosa dentro cui passa la grazia e che è destinato alla gloria» eterna.

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Congdon a sx, con don Patruno e alcuni giovani a Diamanti, Ferrara, 1981, in occasione della sua mostra

Alla sua morte, sul tavolo del suo studio – accanto a spatola e punteruolo, sue “armi” creative – gli amici trovano la sua ultima opera: tre alberi conficcati nel terreno che si stagliano contro un cielo chiaro. Tre come le croci sul Golgota, per quest’opera che realizzò il 10 aprile, Venerdì Santo del 1998, cinque giorni prima di morire.

William Congdon, Crocefisso, 1960. Milano, William G. Congdon Foundation

Morte e rinascita di un santo inquieto

«Tutta la mia vita è stata un quadro – scriveva Congdon -, è stata la testimonianza di questa positività dell’essere, perché altrimenti mi sarei suicidato come tutti gli altri dell’Action Painting a New York». Parole aliene da ogni (auto)inganno, da ogni possibile idolatria. Come, invece, avviene per il giovane in Teorema di Pasolini, che, disperato, distrugge le proprie tele, perché – dopo aver incontrato l’Angelo rivelatore – rimane impigliato nei propri feticci borghesi, non riuscendo a rappresentare l’Irrapresentabile. 

Quello di Congdon, al contrario, «è un occhio trasfigurato da Dio per essere trasfigurante e trasfigurare le cose. Dio mi trasfigura l’occhio – scrive ancora -, cioè mette dentro di me il suo occhio, che io chiamo la trasfigurazione del mio occhio, in modo che io posso vedere, trasfigurare, le cose e dipingere il trasfigurato». L’occhio trasfigurato ora vede (cfr. Gv 9,24-25), vede un pur flebile sfolgorio del reale nella sua essenza più vera. In Dio solo, vedo. Vedo me stesso, vedo ogni forma non come fine a sé stessa ma come Grazia, miracolo di ciò che avrebbe potuto non essere e invece è: «L’arte – scriveva Congdon nell’82 -, quando è autentica trasfigurazione delle cose, come proiezione o espressione del dono creativo, è sempre mistero salvifico, perché il Dono è – mi permetto di usare la parola – sacramento. Sacramento immesso dal creatore nell’artista come “voce” per il divenire del suo Regno nel mondo».

William Congdon, Luna – Subiaco 1968. Olio su pannello, 74 x 65 cm

Dal 29 al 31 maggio a Ferrara, all’interno del Festival della Fantasia, sarà esposta la mostra “Nel mio solco estremo. Paesaggi esteriori e interiori di W. Congdon”, a cura di Roberta Tosi. Inaugurazione il 29 alle ore 19.30 nel Salone d’Onore Palazzo Municipale (Qui il programma:  urly.it/319tf2).

Sono quattro le mostre di Congdon a Ferrara (una collettiva e tre personali), quand’era ancora in vita: 1964, nella collettiva “Gesù nell’arte contemporanea”, Palazzo Arcivescovile; 1981, “W. Congdon: Europa e America”, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti; 1986: “Congdon: opere recenti 1980-1986”, Istituto di Cultura “Casa G. Cini”; 1995-‘96, “Congdon. Pastelli 1984-1994”, Istituto di Cultura “Casa Cini” (con in catalogo testo di Angelo Andreotti, “I segni della mano: riflessioni sui pastelli di William Congdon”).

Note

FONTI PRINCIPALI
– U. Casotto (a cura di), “William Congdon. L’essenziale è visibile agli occhi” (Dario Cimorelli ed., 2024).
– W. Congdon, “Nel mio disco d’oro. Itinerario a Cristo” (Pro Civitate Christiana, 1961). 

FONTI SECONDARIE
– F. Patruno, “William G. Congdon: Lo splendore è sempre sofferenza”, in “L’Osservatore romano”, maggio 1995.
– R. Balzarotti, “William Congdon”, in “Vita e Pensiero”, marzo 1993.
– W. Congdon, “Il senso sacro-cristiano nella mia esperienza dell’arte”, in “Communio”, settembre-ottobre 1982.
– W. Congdon, “Congdon: la mia radice creativa”, in “La Voce di Ferrara”, novembre 1981.
– G. Mascherpa, “Un cattolico astrattista: William Congdon”, in “Vita e Pensiero”, gennaio 1962.

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