

di Patrizia Benvenuti
Dopo un Masters presso la London School of Economics specializzandosi in politiche sociali per contrastare la povertà minorile, la ferrarese Patrizia Benvenuti ha iniziato la sua carriera nella cooperazione internazionale, che l’ha portata a lavorare prima per UNDP, cioè il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, e successivamente per l’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, organizzazione a cui è rimasta legata per oltre vent’anni. Questa è la sua testimonianza da Gaza, a margine della tregua nel conflitto che ha avviato gli aiuti umanitari nella regione. – NdR

Ho lavorato per l’UNICEF, il Fondo delle Nazione Unite per l’Infanzia delle Nazioni Unite per circa 20 anni e prestato servizio in diversi paesi (Somaliland Somalia, Bolivia, Haiti, Nepal, Sud Africa, Filippine e Palestina) come responsabile della Protezione all’Infanzia, ovvero di programmi relativi alla prevenzione e risposta alle diverse forme di violenza contro l’infanzia e l’adolescenza, incluso in situazioni di conflitto armato.
Fra aprile e dicembre 2024 ho trascorso circa due mesi in diverse zone della Striscia di Gaza, sostenendo le azioni dell’UNICEF occupandomi di sostenere i programmi dell’UNICEF e di documentare le principali violazioni sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Avevo già lavorato in contesti di conflitto armato ma la sofferenza e la devastazione che ho visto a Gaza non è comparabile con nessuna altra realtà.
Dall’inizio del conflitto sono morte quasi 50,000 persone, di cui 17.000 bambini, ma secondo la rivista Lancet e altre fonti internazionali, se si contano le persone sepolte sotto le macerie e quelle decedute per mancanza di accesso alle cure, il numero di morti potrebbe superare i 200,000.
All’altissimo numero di perdite fra i civili, si aggiungono i danni alle infrastrutture civili. Secondo dati dell’ONU, più del 50% degli ospedali, l’88% delle scuole, il 92% delle abitazioni civili e l’80% dei terreni agricoli sono stati interamente danneggiati. La distruzione è ovunque; la popolazione civile, di cui oltre il 90% è sfollata, vive in condizioni di estrema precarietà, in rifugi, ospedali o tende, anch’essi bersagli di attacchi militari indiscriminati. L’accesso ai servizi basici è pressoché inesistente: nelle scuole trasformate in rifugi, c’è un servizio sanitario ogni 600 persone; le persone non hanno fonti di reddito e l’inflazione alimentare ha raggiunto oltre il 400%. Per comprare un kilo di pomodori nel Nord della Striscia servono 180 dollari, per un kilo di farina 1,000 dollari, per un cartone di uova 73 dollari, mentre un pacchetto di sigarette arriva a costare fra i 500 ed i 700 dollari.

Per i bambini la situazione è ancora più drammatica. Oltre 5,000 hanno riportato lesioni agli arti, all’udito o alla vista, condizioni ulteriormente aggravate a causa del collasso del sistema sanitario; oltre 19,000 hanno perso uno od entrambi i genitori ed ogni minore della Striscia soffre di danni psicologici causati dai tanti incidenti traumatici che hanno vissuto. Un milione di bambini che non ha più diritti perché il diritto internazionale non esiste più.
Ho parlato con tantissimi bambini durante le mie missioni a Gaza. I loro racconti sono purtroppo tutti simili, parlano di paura, di morte, di esperienze estreme che nessun bambino dovrebbe mai vivere. Mi ricordo ancora le parole di Filisteen, una ragazza di 13 anni rimasta orfana di madre e che ora vive sfollata in una tenda a Deir El Ballah, l’unica zona al centro della Striscia dove ancora si vedono vari edifici non danneggiati dai bombardamenti, ora quasi tutti utilizzati dalle organizzazioni internazionali. Mi ha detto di aver perso la madre e tutti i suoi fratelli quando l’ottobre scorso la sua casa nella città di Gaza venne bombardata. Ricorda ancora di aver visto i corpi smembrati dei suoi famigliari, la casa in fiamme e le sue gambe schiacciate da un pezzo di parete che le era collassato addosso. Oggi, su una sedia a rotelle arrugginita, continua a tenersi stretto il cellulare al petto e a guardare le foto di sua madre e dei suoi fratelli. Dice che sono gli unici ricordi che le sono rimasti di loro.

Dal 19 gennaio, da quando è entrata in vigore la tregua, si inizia ad avere un po’ speranza. Per la prima volta si sono visti entrare grandi volumi di aiuti umanitari, a prova che prima della tregua la scarsità degli aiuti umanitari non dipendeva dall’incapacità delle organizzazioni internazionali nel far arrivare gli aiuti, ma da una chiara volontà politica di punire e piegare la popolazione civile con ogni mezzo possibile.
Lo stesso vale per le evacuazioni mediche. Prima della tregua, degli oltre 12,000 pazienti in attesa di essere evacuati, di cui la metà bambini, meno di un migliaio ha ottenuto l’autorizzazione a lasciare la Striscia per ricevere cure in paesi terzi, quasi tutti Paesi extra europei. Dall’inizio della tregua, Israele ha autorizzato l’evacuazione di oltre 5,000 feriti e malati cronici. Riceveranno cure ed assistenza medica e saranno salvi ma quello che gli aspetta è una vita da immigranti illegali o nella migliore delle ipotesi, da rifugiati, visto che il diritto al ritorno alla terra di origine rimane per ora, e forse per sempre, negato.
Dall’inizio del conflitto sono state lanciate più di 100,000 tonnellate di bombe su Gaza e si stima che serviranno circa 20 miliardi di dollari per ricostruirla.
Dopo 15 mesi di violenza brutale, conservo ancora la speranza che il cessate il fuoco sia definitivo e che i Governi che sino ad ora hanno scelto di girare le spalle a Gaza possano finalmente scegliere di stare dalla parte giusta della storia e dell’umanità ed aiutare la rinascita di Gaza.
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