Piazza Verdi, a Ferrara, la conoscono tutti. Si trova a due passi dalle Mura sud della città, quasi alla fine di via Carlo Mayr prima che questa diventi via Ripagrande. La conoscono tutti come piazza Verdi perché prende il nome dall’ex Teatro Verdi che vi si affaccia, e che è il carapace di un teatro popolare costruito nel 1857 e chiamato ‘Arena Tosi-Borghi’, poi risistemato nel 1913 e inaugurato con lo spettacolo dell’Aida di Giuseppe Verdi. E per questo da allora è chiamato Teatro Verdi. È diventato ex nel 1985, quando è stato chiuso definitivamente e ne è rimasto solo uno scheletro di muratura. Ma l’ex Teatro Verdi si chiama così anche oggi che un progetto regionale l’ha risvegliato dal grande sonno che è durato trent’anni.
Il Programma operativo regionale (Por) del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) 2014-2020 ha individuato Ferrara tra le dieci città che avrebbero ospitato il progetto Laboratori Aperti, una strategia che si impegna a innescare processi di partecipazione di cittadini e imprese all’interno di spazi recuperati da immobili dismessi o ormai di archeologia industriale. E in città il carapace dell’Ex Verdi si è prestato perfettamente alla causa, ricevendo una linfa di 1,6 milioni di euro per tornare alla vita. Ora che si è risvegliato, verrà gestito da un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) composto dalla Fondazione Giacomo Brodolini, ETT, MBS e CIDAS. Insomma da oggi, più correttamente, si dovrebbe chiamare ex Teatro Verdi ora luogo riqualificato grazie al Laboratorio Aperto di Ferrara: è un nome un po’ lungo e infatti tutti continuano a chiamarlo ‘ex Teatro Verdi’, e basta.
Il 15 novembre 2019 è il giorno del risveglio dell’ex Verdi, e cioè il giorno in cui si è presentato alla città con un’open day. C’erano le autorità, i giornalisti, gli architetti, i comunicatori, i maker, gli artisti, i curiosi, i passanti, e c’ero anche io. E vedendo questo gigante di mattoni grezzi e metallo finalmente desto mi sono chiesta: non è forse l’ora di tornare a chiamarlo Teatro Verdi, e basta?
“No”, mi ha risposto il prof. Michele Trimarchi, docente all’Università di Bologna, advisor del Laboratorio Aperto di Ferrara e toolers della Tools for Culture, una no profit che opera nel campo delle strategie per l’arte e la cultura. “Questo era un teatro sì – mi spiega – ma non possiamo più pensare di rifare l’ennesimo teatro: ora è qualcos’altro, questo luogo deve essere qualcos’altro. Bisogna leggere questo spazio, anche fisicamente e capire cosa ci si può fare dentro”.
E in questo spazio, la RTI che lo ha in gestione sta lavorando per “ridisegnare il rapporto con lo spazio e il tempo – continua – e rendere questo luogo permeabile ai flussi: così le persone vanno, vengono e possono fare un sacco di cose”. Tra le cose che si possono fare all’ex Teatro Verdi ci sono: corsi di formazione digitale per le scuole, laboratori sulle nuove tecnologie, incontri, seminari e mostre, spazi per riunioni, coworking e utilizzo delle strumentazioni di realtà virtuale messe a disposizione di start up e aziende. La prima cosa che si è fatta all’ex Teatro Verdi, però, è un’altra: una performance di arte digitale che ha coniugato sintesi video, hacking, visual e vector art. Per farmi spiegare cos’è, ho fatto due chiacchiere con gli artisti Jonas Bers, un ragazzo di New York che ha fatto sold out al Lincoln Center, e Philip Baljeu, un canadese timido che lavora con la LZX Industries, leader mondiale nel settore dei sintetizzatori video. Mi hanno parlato di oscilloscopi, cimatica e arte astratta e questo è quello che ho capito.
“Devi cominciare da questo: il loro concetto artistico è sinestetico”, mi dicono Marcello Dalcampo ed Antonella Di Tillo dell’associazione Memori (che con la Tools fo Culture del professor Trimarchi condivide l’idea progettuale che ha portato Bers e Baljeu a Ferrara); e per sinestetico intendono questo: “all’audio corrisponde una reazione visuale”. L’arte di Bers e Baljeu è infatti un’arte astratta resa possibile da sistemi audiovisivi autocostruiti: sintetizzatori smontati, personalizzati e riassemblati, modulari, schede e circuiti fatti in casa che diventano strumenti creativi capaci di simulare la realtà a partire da un segnale.
“Un solo unico segnale – mi spiega Bers – che è udibile e visibile allo stesso tempo, ed è anche tangibile”. Il suo lavoro, come è lui stesso a presentarlo, è un’estensione della cimatica di Hans Jenny, quella teoria dei fenomeni ondosi che li vuole formati da una natura triadica. E mentre la platea dell’Ex Teatro Verdi viene invasa da suoni metallici e frequenze inusuali che ballano lisergiche sullo schermo allestito proprio al centro, mi accorgo che l’arte, in realtà, accade un po’ più in basso rispetto a dove stanno guardando i miei occhi, e un po’ più nella penombra. Avviene lì, sul tavolo allestito per ospitare gli arnesi del mestiere di Bers e Baljeu, arnesi che io non conoscono e non comprendo, ma che parlano una lingua che capisco: “è questa l’originalità e la genialità dell’arte: permettere una connessione, è un linguaggio comune. Guardiamo uno schermo senza alcun suono e poi c’è un rumore forte e un punto che si muove, e poi un cerchio, ma cos’è un cerchio? Non lo so, ma so questo: se guardiamo un quadrato, io e te, abbiamo la stessa reazione”.
Non mi è ben chiaro dove il Bers-artista lasci il posto al Bers-ingegnere, e la stessa cosa si può dire di Baljeu. Sono entrambi completamente autodidatti, progettano per intuizione. E, imparata l’arte, la mettono a servizio della comunità, su internet: il loro motto è open-source hardware. “Questa è una cosa che secondo me merita una profonda stima”, specifica Dalcampo, “il fatto che questi artisti lavorino con attrezzature che costruiscono da sé: loro conoscono ciò che utilizzano, i loro sono strumenti e non utensili, non sono consumatori degli oggetti, ma hanno una parte attiva”.
E infatti il Bers artista/ingegnere mi dice che “per la maggior parte del tempo costruisco cose, imparo dalle cose, cerco di capire come funzionano, è una parte importante dell’intero processo ed è così importante che un sacco di volte, dopo una performance, resto a parlare per ore con le persone per spiegargli come funzionano gli oggetti che uso”. E Baljeu si accoda e mi confessa che “a volte impiego un intero anno per costruire uno strumento che uso per una settimana soltanto”.
Baljeu mangia pane e circuiti da sempre e ha fatto della filosofia del DIY (che sta per do it yourself, ndr) un lavoro: ora progetta per la LZX Industries, “una società texana fondata nel 2008 che produce sintetizzatori video modulari – mi dice – prima di loro, i synth video erano strumenti costosissimi, ora li possono usare tutti”. Bers, dal canto suo, ha invece progettato il CHA/V (che invece sta per Cheap, Hacky, Audio/Video), un synth video DIY entry level, che tutti possono costruirsi e tutti possono usare. La cosa che ho imparato il giorno del risveglio dell’ex Verdi è che tanti potrebbero usarlo proprio qui, negli spazi dell’ex Verdi, nella platea, o nei tre piani in cui si articola la struttura. Il professor Trimarchi non mi nasconde infatti che “l’orizzonte possibile, tra gli altri, potrebbe essere quello di un laboratorio permanente, una residenza d’artista perché c’è una lunga coda di appassionati”: la scena internazionale c’è – ci sono anche nomi italiani, come il triestino Alberto Novello – e si è già riunita l’anno scorso al Vector Hack festival, tra Zagabria e Lubiana. Ma Ferrara, ipotizza anche Antonella Di Tillo, potrebbe proporsi come “spazio per materializzare una comunità virtuale, per ospitare determinati fermenti, per farsi luogo d’incontro”.
La scommessa è questa: chiunque arrivi all’Ex Teatro Verdi ora luogo riqualificato grazie al Laboratorio Aperto di Ferrara non sapendo cosa succede, ci entra e vuole scoprirlo. Perché l’ex Teatro Verdi era un teatro, sì, ma adesso è qualcos’altro.
1 commento
Gli articoli che ho letto finora hanno stimolato la mia curiosità, la voglia di approfondire e apprezzare sempre più la storia ma anche il presente e il futuro della zona in cui vivo.
Continuate su questa linea editoriale perché la trovo easy e anche accrescitiva !
Qualcosa di fresco e utile per immaginare il mio futuro.