Radici, il racconto primo classificato al premio Storie di Pianura

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Lo scorso 21 maggio, nella suggestiva cornice cinquecentesca di Palazzo Naselli Crispi, si è tenuta la cerimonia di premiazione della quarta edizione 2024-25 del Premio nazionale di narrativa Storie di pianura, promosso dal Consorzio di Bonifica Pianura di Ferrara e dall’Associazione culturale Gruppo Scrittori Ferraresi Aps, nell’intento di far meglio comprendere questo tipico paesaggio che caratterizza alcune vaste zone della penisola italiana, attraverso lo strumento del racconto.

Gli otto racconti premiati sono disponibili in formato digitale sul sito web del Gruppo Scrittori Ferraresi www.scrittoriferraresi.it. Questi ed altri racconti, individuati tra i migliori, verranno in seguito dati alle stampe in un’Antologia a distribuzione gratuita, che a fine anno sarà inviata alle Autrici e agli Autori pubblicati e verrà presentata al pubblico, a cura del Gruppo Scrittori Ferraresi, presso la biblioteca Ariostea di Ferrara.

Pubblichiamo qui il racconto 1° classificato: Radici di Andrea Simion (Verona).


1. Dove l’infanzia presenta il conto.

Portavo ancora i segni della separazione dei miei genitori, senza ricordi chiari di quei momenti dolorosi.

    Nell’estate dei miei quattordici anni, mio padre decise di andarsene da casa: una vecchia cascina tra i campi di Villanova Marchesana e Taglio di Po, sebbene in quel posto ci fosse tutta la nostra storia.

    Mia madre raccontava di come la bisnonna fosse arrivata lì scalza, trascinando un carretto, con quattro figli e pochi stracci. «El Po no ‘l se ferma mai, ma se te lo segui par bastanza, el te porta a casa», ripeteva.

    Due piani di tegole sbrecciate sovrastavano il portico, che si apriva su un cortile di attrezzi arrugginiti. Oltre si stendeva la pianura bonificata, che durante le piogge diventava una rete di canali gonfi d’acqua.

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    In quei giorni d’estate rincorrevo le rane nei fossi, giravo con la bici vecchia di mio nonno e raccoglievo more dalle siepi.

    Mio padre voleva tagliare i ponti con tutto questo. Per lui era un mondo vecchio di canali, povertà e stagioni nei campi, che non ci apparteneva più. «A Padova ghe sarà aria moderna e ocasioni», diceva. Mia madre, invece, difendeva quella terra, plasmata dal sudore di generazioni di uomini, come fosse parte di lei. Nei loro litigi affioravano quindici anni insieme e due vite troppo diverse.

    In quei giorni passavo ore alla finestra della mia stanza. Guardavo la pianura: il mais alto piegato dal vento, i campi già mietuti a riposare al sole.

    A quattordici anni non ero in grado di decidere, anche se non volevo lasciare quel posto, le sue sere piene di grilli e stelle. Alla fine mia madre disse di sì, potevo seguire mio padre in città. Lei sarebbe rimasta. Diceva per il podere, ma io sapevo il perché: lì c’era la sua vita.

    Prima di partire salutai Arnaldo, un vecchio amico di famiglia che viveva isolato lungo il Po. Lo vedevo già anziano allora, ma non gli chiesi mai l’età. Mi voleva bene perché non aveva avuto figli quando poteva. Quando avrebbe voluto, era già rimasto vedovo.

    Lo trovai mentre scavava sul confine del campo. «Arnaldo! Arnaldo!», chiamai. Si girò, lasciò la vanga nella terra e mi venne incontro. Sapeva di erba umida e sudore. «Te vè via, eh?», disse riprendendo fiato. Mi abbracciò. «Cossa feto qua?», gli chiesi, guardando la terra smossa. «Pianto salezi. Le radise le tegnarà su l’argine co’ vien la piena», disse. «Come i nostri veci, che ga tegnù duro par ani e ani».

    Le sue parole si mescolarono al canto delle cicale. Non capii subito cosa volesse dire. Ci avrei ripensato tante volte, dopo. Lui parlava poco e sapeva che non ci saremmo più rivisti. Io me ne sarei reso conto più tardi.

    Davanti a me c’era una vita nuova. Lui, invece, sarebbe rimasto lì a guardare le stagioni passare nei campi. «Lo vedarè crescer», mi disse salutandomi, indicando lo scavo. Mi guardò come fanno i vecchi, con saggezza e malinconia.

    2. Dove la vita va avanti, vent’anni dopo.

    Passarono vent’anni, con i loro alti e bassi. La vita mi aveva portato via dal Polesine come fa il fiume con un ramo e la pianura infinita era diventata solo un ricordo sepolto sotto il rumore e la fretta di Padova.

    I portici, le piazze piene di gente, il traffico, le voci dei bar, il via vai di studenti e impiegati: questo era diventato il mio mondo. Mi ero abituato a un ritmo che non aveva niente a che fare con quello del paese d’origine.

    All’università resistetti due anni. Passavo più tempo a suonare nei locali che sui libri. Ma la musica era sempre stata la mia passione, fin da quando avevo iniziato a strimpellare la chitarra, imitando gli assoli che ascoltavo sui dischi.

    All’inizio mio padre la considerava una cosa da ragazzini: prima la laurea e un lavoro serio, diceva, le canzoni potevo tenerle per il weekend. Quando capì che facevo sul serio, che avevo cominciato a fare serate pagate con un gruppo, smise di parlarne. Per lui contava solo la sicurezza di vivere in città. Come mi sarei guadagnato da vivere sarebbe stato affar mio. Le nostre cene divennero più rare, fatte di silenzi e sguardi che non si incrociavano mai. Neanche invecchiando cambiò mai idea.

    Mia madre, invece, mi telefonava ogni settimana. All’inizio insisteva perché tornassi, almeno per qualche giorno. Dopo aver venduto la cascina ed essersi trasferita a Taglio di Po, vicino alle amiche che le restavano, si accontentava di raccontarmi del tempo e delle piogge che non bastavano mai. «El Po ‘l xé baso», mi diceva, «se ‘ndemo vanti cusì no ghe xé aqua par bagnar i campi».

    Altre volte, invece, erano le piene a portarsi via i raccolti. Chiudevo gli occhi mentre parlava e vedevo i campi allagati, il fango ovunque. Non capivo se fosse preoccupata o ormai rassegnata. Non lo diceva. Era fatta così: dopo ogni disastro si rimboccava le maniche e ricominciava, come tutti lì.

    Avevo suonato di tutto: rock, jazz, musica d’avanguardia. Cercavo sempre qualcosa di diverso, come se ogni genere potesse portarmi più lontano da casa. La città mi aveva convinto di poter essere felice altrove, senza voltarmi indietro. La pianura, le corse in bici sugli argini, i miei quattordici anni, persino il dialetto: avevo chiuso tutto in un cassetto. Ma più passava il tempo, più sentivo che mi mancava una voce vera, qualcosa che venisse dalla terra. Forse per questo, quando quell’estate un amico mi parlò di una band che mescolava folk e cose nuove, qualcosa si mosse dentro di me. Cantavano in dialetto, cercavano un chitarrista. C’era una data ad Adria. Non ci pensai troppo: era il momento. Mi dicevo che era solo per suonare, ma sapevo che non era vero. Era ora di tornare a casa.

    3. Dove si trova un posto nel mondo.

    La sera del concerto mi fermai un momento prima di salire sul palco. L’aria era quella delle sere d’estate di allora: pesante, ferma, con l’odore del fiume che si mescolava a quello della terra. La piazza di Adria si stava riempiendo. Sentivo brandelli di discorsi in dialetto, quel modo di parlare che per vent’anni avevo cercato di dimenticare. Qualcuno rideva, qualcun altro commentava il caldo. Era come se il tempo si fosse fermato.

    Quando iniziammo a suonare, capii che non era un concerto come gli altri. Non era solo musica: era la voce di una terra che conoscevo, erano le parole che avevo sentito da bambino, era il ritmo delle stagioni che ancora scandivano la vita qui. La gente non stava solo ad ascoltare: annuiva, sorrideva, si guardava. Riconosceva qualcosa di suo in quelle note, in quel dialetto che era più di una lingua: era un modo di stare al mondo.

    Negli applausi sentivo la forza di chi sa cosa significa vivere in questi posti, dove il vento può piegarti il granturco e l’acqua può portarti via il raccolto, ma dove si continua a seminare, a costruire, a resistere.

    Il giorno dopo il concerto presi la macchina per andare a salutare mia madre. Una ventina di chilometri mi separavano da Taglio di Po. Non ricordavo bene il percorso, ma i cartelli e i filari di pioppi mi dicevano che ero sulla strada giusta.

    Era strano tornare. Gli argini, i canneti, i campi sembravano gli stessi di sempre. Ma guardando meglio vedevi i cambiamenti: il fiume più stretto, i canali mezzi secchi, la terra che aspettava la pioggia. La pianura continuava la sua battaglia con l’acqua, troppa o troppo poca.

    Quando arrivai a Taglio di Po, mi presi del tempo prima di suonare il campanello. Il suo cognome era l’unico rimasto. Nessuno rispose. Mi fermai a fumare. Poi vidi una figura curva che si avvicinava con due borse della spesa. La guardai mentre cercava le chiavi, poi la chiamai: «Ciao, mà». Lei per poco non fece cadere tutto. Mi guardò, sorrise: «Fio mio, te sì tornà!».

    Entrai: era tutto uguale, come se non fossero passati vent’anni da quelle estati in cascina. Mentre lei sistemava la spesa e preparava il caffè, guardavo le vecchie foto sulla credenza.
    «Te go telefonà par ani, solo par saver se te stavi ben. Na mare la ga sempre bisogno de saver che so fio el xé contento. Anca se tra mi e to pare le robe le xé ‘ndà come che le xé ‘ndà, ti te si sempre sta el nostro fio. E savevo che un giorno te saresti tornà».

    «Dai mama, no sta parlar cusì, te ga ancora tanti ani davanti», risposi, cercando di non far tremare la voce.

    Lei si asciugò gli occhi col grembiule. Le promisi che sarei tornato presto. Prima di uscire le chiesi di Arnaldo. Mi disse che era morto da qualche anno. Rimasi in silenzio.

    «La so abitasion?» continuò lei, «Ora ghe un agriturismo. Va avanti par sta strada e gira a destra al canton. No te pol sbagliar: ghe xé ancora quei salezi veci sul confin».

    Seguii le sue indicazioni. In effetti, la casa non c’era più: al suo posto un agriturismo, con un’insegna di legno e siepi ordinate. Mi sentii perso, come se quel pezzo di passato fosse sparito per sempre. Poi lo vidi. Il salice di Arnaldo era cresciuto forte, le radici ben piantate nell’argine. Aveva fatto quello che doveva fare: era rimasto al suo posto.

    Mi avvicinai all’ingresso. Un uomo sui cinquant’anni era sulla porta. «Posso aiutarla?», chiese gentile. Mi venne spontaneo rispondere in dialetto: «Vardavo quel salese vecio. Conosevo la persona che gaveva sta casa prima».

    «Ah… quei salezi i ga proprio i so ani. Me nono el me contava de quei tempi qua. El ghe jera un vecio che stava qua prima de nualtri…».

    Mi guardò, capì. «Se’l vol, el vaga pure. I xé là».

    Mi sedetti sotto il salice. Chiusi gli occhi. Il vento portava l’odore del fiume e sentivo ancora la voce di Arnaldo: «Se pianta ancò par doman, anca se quel doman no ‘l xé tuo». Solo allora capii: quelle radici erano le mie, come erano quelle di mia madre, come erano state quelle di tutti i nostri vecchi.

    Mi ritrovai a piangere, ma non ero triste. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo a casa davvero, non tra mattoni ma in questa terra d’acqua dove ero cresciuto.

    Il sole filtrava tra i rami. Ripensai ad Arnaldo, alla sua vanga, al suo modo testardo di resistere piantando alberi. Era cambiato tutto, ero cambiato anch’io, ma le radici erano sempre quelle.

    Tornai alla macchina. Mi sentivo al mio posto. Potevo ripartire felice.

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