Antonioni regista della disperazione?

Riflessioni sulla “tetralogia dell’incomunicabilità”, fra morsa della noia e attesa del Mistero
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Prego, scegliete il nulla che a voi si confà

«Se uno entra nel giro, si appassiona…».
«Si appassiona a che cosa, Pier?» [1].

Solamente chi non ha perso il senso delle cose e del loro mistero, può sentire quell’intima unione che si crea a Ferrara tra i muri delle case e quella bruma che – velandoli – li avvolge. Immagino così l’ingresso di via Cortevecchia, 57, in quello spigolo dove visse Michelangelo Antonioni. Un piccolo mondo “magico”, abitato da quegli affetti che la gioventù a un tempo teme e brama. Ma già in quello scrigno, il futuro regista sentiva affacciarsi sulla sua amata e odiata borghesia ben altra noia: quella fredda che permeerà i film della sua tetralogia – L’avventura, La notte, L’eclisse, Il deserto rosso.

«Perché dovrei vivere, per decidere che vestito mettere?», dice Rosetta ne Le amiche, prima di suicidarsi. Siamo nel 1955. La società nascente, che esploderà negli anni ’60, sarà una società sempre più “comunicativa”, satura di parole. Sarà questa che Antonioni rappresenterà – come sfida o reazione – coi silenzi. Darà volto, insomma, a una “società della sparizione”, cioè priva di senso, di valori, di una fede che lega oltre le trappole dell’apparenza. A Valentina [2] piace «tutto». Giuliana vuole «tutto» [3]. Ma come Patrizia possono dire: «Io non amo nessuno» [4].

Quel «tutto» è dunque un nulla. In questi anni la borghesia è al culmine, ma proprio qui si mostra nella sua vacuità. Le sue rose «dormono lo spazio di una notte» [5].

Antonioni si pone, dunque, come narratore di questa modernità fintamente rivoluzionaria, foriera di stravolgimenti ma ottusa, perché incapace di nutrire veri dubbi, di conoscere rallentamenti, nostalgie, estraneità rispetto a sé. Ma siamo sicuri che questa modernità Antonioni la racconti con sufficiente occhio critico o, invece, non finisca – nel proprio formalismo visivo – per diventarne involontario cantore?

Non è tempo per l’utopia?

«C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice» [6].

Nel 1980 Roland Barthes disse rivolto ad Antonioni: «La tua inquietudine per l’epoca non è quella dello storico, del politico o del moralista, ma piuttosto quella dell’utopista che cerca di scorgere su punti precisi il mondo nuovo, poiché ha voglia di quel mondo e vuole già farne parte. (…) la tua, è una vigilanza amorosa, una vigilanza del desiderio» [7].

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Il desiderio – nella sua ricerca di un Oltre che sempre ci supera – è ciò che muove la passione per la realtà, svelandola nella sua vera essenza, fatta di Mistero e di Grazia.

In un interessante saggio di recente pubblicazione, Giulia Chianese scrive: «Nei suoi film c’è ancora un calore, una speranza dietro quell’incomunicabilità» [8]. Lui stesso dirà: nei documentari italiani «mi ero stancato di vedere sempre cose. M’interessava l’uomo e scrivevo soggetti sull’uomo» [9]. Da qui nasceranno le sue prime opere. Antonioni, dunque, non ha mai creduto in una possibile narrazione oggettiva del mondo, evitando quello sterile e ideologico realismo allora egemone. Andare al fondo, all’interiorità dei propri personaggi, contro ogni maschera e sovrastruttura: questo gli interessava.

Ma per non soffocare né nel “realismo capitalista” [10] né in quello del rigido secolarismo pseudomarxista, possiamo tentare di capire se Antonioni fosse davvero capace di utopia. Utopia, termine tra i più fraintesi: non si tratta di proporre fumose astrazioni come alternativa alle alienazioni della tecnica e dello scientismo, ma di trascendere il proprio tempo per trasformare quel “tempo interiore” in “tempo rivoluzionario” [11], che spezza il presente reificato dando vita a un nuovo linguaggio.

Nei film di Antonioni c’è, dunque, spazio per un’utopia che sia anche politica, nel senso più ampio e profondo del termine?

Solo un’Apocalisse può salvarci

«Oltre il tuo volto vedevo qualcosa di più puro e di più profondo in cui mi specchiavo» [12].

Nei film della tetralogia, i personaggi sembrano sospesi, non avere più morso sul mondo, più aderenza alla realtà: le cose si mostrano come assurde perché prive di consistenza. E quindi Giuliana quando si chiede «cosa devo guardare?» [13] ricorda Antoine Roquentin: «Mi sento pieno d’angoscia: il minimo gesto m’impegna. Non posso indovinare quello che si vuole da me. Eppure bisogna scegliere» [14].

Se, quindi, il “realismo” è una falsa risposta, anche l’utopia ha bisogno di un respiro più profondo: quello dell’attesa del Mistero, di una Verità che non sia laccio ma luce che apre all’Infinito. Antonioni sicuramente intuiva quest’«immagine assoluta» [15] oltre l’epidermide della rappresentazione, ma che solo una Rivelazione (apokálypsis) può mostrare. Quella rappresentata da Antonioni nella tetralogia è, invece, una società che va gradualmente desacralizzandosi, e quindi disincarnandosi: le emozioni, i corpi, i vissuti sembrano congedarsi in un ultimo, tragico e stanco rito. Il Mistero sembra abolito.

Ma dopo tutto ciò, cosa rimane? L’ultima parola può davvero essere affidata – come in Zabriskie Point – al sordo fragore della distruzione?

«Senza il mistero, la vita sarebbe irrespirabile», scriveva Marcel [16]. I film di Antonioni sono lì a ricordarcelo.


[1] M. Antonioni, L’eclisse, 1962.
[2] M. Antonioni, La notte, 1961.
[3] M. Antonioni, Il deserto rosso, 1964.
[4] M. Antonioni, L’avventura, 1960.
[5] M. Antonioni, La notte, cit.
[6] M. Antonioni, Il deserto rosso, cit.
[7] https://www.michelangeloantonioni.info/2013/01/24/caro-antonioni-di-roland-barthes/
[8] In Infinito Antonioni. Una ricerca rivoluzionaria sulle immagini, a cura di Elisabetta Amalfitano e Giusi De Santis, L’asino d’oro ed., 2024.
[9] M. Antonioni, I film nel cassetto, Marsilio ed., 2001.
[10] M. Fischer, Realismo capitalista, Nero ed., 2018.
[11] La «felicità capitalista» è «tutta proiettata nel futuro, quello che ci è concesso nel presente è viverne collettivamente la sua astrazione, reificata nella merce che noi stesso diventiamo». Ma così si vive nell’«assenza di passato, di senso, di verità e dunque di redenzione». Bisogna, invece, «vivere ogni attimo come quello dal quale può entrare il Messia» (M. Tarì, Non esiste la rivoluzione infelice, DeriveApprodi, 2019).
[12] M. Antonioni, La notte, cit.
[13] M. Antonioni, Il deserto rosso, cit.
[14] J. P. Sartre, La nausea, 1938 (I^ edizione).
[15] «Potrebbe esistere un’immagine assoluta che il pensiero in forma di cinema non può e non potrà mai svelare» (dalla Prefazione di Enrico Magrelli in Infinito Antonioni, cit.).
[16] G. Marcel, Tu non morirai, Valter Casini ed., 2006.

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