Ancora tu, Esterno Verde, ma non dovevamo vederci più?

Cronaca sentimentale di un weekend di esplorazioni lungofiume
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C’è un silenzio diverso lungo il Po. Non è quello ovattato dei giardini segreti, ma un silenzio che respira con l’acqua e i campi, con le strade basse percorse in bicicletta. Dopo l’addio annunciato a maggio, sembrava ormai arrivato il momento dei saluti, invece il Verde è tornato: si è allargato, ha messo radici nuove, non più dentro le mura ma fuori, tra frazioni e paesaggi che chiedono  – ancora –  di essere guardati con occhi diversi.

Il 13 e 14 settembre Esterno Verde è stato un piccolo viaggio inaspettato: non tanto un festival da spuntare tappa dopo tappa, piuttosto un invito a lasciarsi portare altrove. Perché è così che funziona: parti con una mappa in tasca e finisci per ritrovarti in un cortile che profuma di erba tagliata, a chiacchierare con chi quel luogo lo custodisce da anni.

Pubblico di Esterno Verde a Villa Spisani (Stellata)

Esterno Verde lungo il Po è un ramo dell’universo nato da Interno Verde: un festival diffuso gratuito, nato come sperimentazione e sfida nel 2024 e strutturato nel 2025 come la prima edizione di esplorazioni agresti che spingono lo sguardo oltre le Mura, fino alle frazioni distese lungo il Po. Qui ville, corti agricole e boschi golenali hanno aperto le porte trasformandosi, per un weekend, in luoghi di incontro e di meraviglia.

Le mappe erano di nuovo lì, tra le mani dei curiosi. Alcuni le hanno consultate come carte del tesoro, altri le piegavano a metà, lasciandosi guidare più dall’intuizione che dal percorso tracciato.

Io ho pedalato tra strade basse e campi, rallentando il passo. Mi sono fermata davanti a una idrovora: tubi e ingranaggi si innalzavano come navate di una cattedrale industriale. La luce filtrava tra il metallo, disegnando ombre che mi sembravano corridoi segreti. Ho salutato gli alpaca dell’allevamento sul Po – sì, davvero! – , ho varcato portoni e cancelli che normalmente restano serrati. Luoghi che prima potevo soltanto intuire da un buco della serratura o intravedere appena, sollevandomi sulle punte dei piedi.

un alpaca alla Tenuta dei Cria (Settepolesini)

Il mio giro ha avuto anche due soste speciali, che hanno allargato ancora di più la mia prospettiva. Di pari passo, infatti, cammina Interno Verde Danza, che nei giorni del festival porta i corpi dei danzatori fuori dal teatro e li lascia dialogare con giardini, corti e palazzi storici. Una geografia in movimento, dove i gesti ridisegnano gli spazi e ricordano che l’arte può fiorire ovunque.

Con Le Baccanti – Fare Schifo con Gloria, la scena si è fatta rito: tre corpi nel Ridotto del Teatro chiedevano di smembrare il pensiero, di evocare un presente difficile da guardare in faccia. Non un racconto lineare, ma un grido che mescolava oscenità e purezza, caos e rivelazione: il corpo come altare, come veicolo di una verità che di solito resta nascosta. La ricerca di Giulio Santolini ha trasformato lo spazio urbano in un rito pagano fatto di desiderio e distruzione intrecciati.

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Poco più avanti, nei giardini interni del Palazzo Giulio d’Este, riecheggiavano invece i corpi vibranti dei danzatori, che con R.I.A.D. hanno spostato il linguaggio sulla musica del corpo. Percussioni e passi intrecciati hanno costruito un tappeto ritmico, un’architettura sonora fatta di battiti e vibrazioni: niente scenografie, nessun artificio, solo il corpo che si fa strumento, che genera suono e ritmo, e così racconta il presente con un linguaggio essenziale.

Due esperienze molto diverse, eppure legate da un filo comune: ricordare che il corpo è il primo strumento, il più fragile e potente, quello che non ha bisogno di traduzioni per farsi capire e che si adatta al luogo che si trova a vivere.

Ogni luogo della manifestazione infatti, in questi giorni di festival, ha avuto la forza di diventare scena: una rocca, un bosco di golena, un vecchio circolo sportivo, perfino un barcone galleggiante. La danza ha cucito un filo tra città e campagna, trasformando parchi e palazzi in palcoscenici imprevisti, mentre a Stellata un visore 360 restituiva cartoline del passato come finestre ancora aperte sul futuro.

Tra le sorprese di domenica pomeriggio, il vecchio casolare abbandonato a Pontelagoscuro che ha ritrovato nuova vita. All’interno ospitava una mostra fotografica mentre nel giardino i visitatori potevano muoversi a ritmo di musica live e rifocillarsi in un piccolo bar autogestito, dove cibo e bevande erano offerti senza listino, lasciando a ciascuno la libertà di contribuire. Non solo un’apertura temporanea, ma l’inizio di un progetto che guarda avanti: qui si immaginano laboratori teatrali, orti condivisi, momenti di socialità che possano radicarsi e crescere. Un esempio concreto di come Esterno Verde non si limiti a mostrare luoghi, ma riesca a generare nuove possibilità di comunità.

pubblico di Esterno Verde

La linfa, ancora una volta, è arrivata dalle persone, quelle pronte a raccontare, a vivere i luoghi: bambini che correvano tra i giardini, gli anziani che spiegavano come “un tempo qui si coltivava così”, i gruppi di amici che ridevano al tramonto, con il fiume a pochi passi. Alla fine, quello che resta non è un elenco di tappe visitate, ma l’impressione di aver attraversato un mondo parallelo, sospeso tra città e campagna. Esterno Verde non è un addio né un ritorno, ma un passaggio: la conferma che l’universo Verde – fatto di Interno, Esterno, Danza – continua a reinventarsi.

il barcone di Flavio (Ravalle)

Resta l’immagine di una bicicletta appoggiata a un cancello arrugginito, il riflesso dorato del Po, un brindisi improvvisato in un cortile. Resta la certezza che ogni territorio ha un’anima segreta – e che, se ci fermiamo ad ascoltare, può ancora sorprenderci.

Il resto, come prometteva il programma, lo abbiamo improvvisato. Ed è stato proprio lì che si è nascosta la parte migliore.

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