

(Disclaimer: più che una recensione, un omaggio. Se non conoscete il gruppo si capirà poco, io vi ho avvisato)
Io dormivo, i miei andavano a lavorare presto, perché era una fase politica intensa, assemblee, esami, discussioni, cose così. I miei vent’anni hanno il suono elettronico e distorto di un cd dei reggiani Offlaga Disco Pax, nell’autoradio sgargiante di un auto usata (che almeno di marce ne aveva cinque). Hanno le parole di un gruppo che ha segnato un’epoca come un’onda di riflusso nostalgico verso anni che non erano stati i nostri, ma suonavano ancora plausibili, condivisibili, futuribili. Le frasi divenute negli anni memorabili modi di dire, tormentoni e infine meme sui social abbracciano tutta la produzione del trio reggiano, ma attingono a piene mani soprattutto dal primo album, quel Socialismo tascabile che nel 2025 compie vent’anni e non ha mai smesso di espandersi, come l’universo.
Erano i miei anni dell’università ma anche quelli dei governi Berlusconi, della balotta bolognese dei blog, di tanto tempo libero e infiniti viaggi di perlustrazione per la rossa Emilia paranoica. Socialismo tascabile irrompeva allora come un oggetto estraneo, attingendo a sonorità del passato ma con uno spoken word ironico e tagliente, a tratti malinconico e nostalgico, ricchissimo di riferimenti storico-sociali. Impossibile non venire travolti dalla narrazione di Max Collini se si conosce almeno un po’ la storia del secolo breve e i suoi momenti più drammatici, impossibile non amarla alla follia se suona così familiare. Impossibile non commuoversi ascoltando i riferimenti a quelle storie che ci hanno raccontato da piccoli, se si vive in una terra dove l’impegno sociale ha scritto pagine memorabili della storia di questo Paese, dove la militanza è stata per molti un rifugio o un impegno totale, specie in quei quartieri dove “il Partito Comunista faceva il settantaquattro percento” e i nomi delle strade o dei bisnonni richiamano tutti alla nomenklatura sovietica.
È un Max Collini che torna sul palco felice come un bimbo, con gli occhi sgranati e un sorriso per tanti amici che si è trovato a salutare in questa data di Ferrara sotto le Stelle, che sembra di suonare dietro casa visto quanti reggiani ci sono in giro. Vent’anni dopo il tour del ventennale del loro disco seminale (lo si dice spesso ma se non è seminale questo…) sta registrando sold-out dappertutto e continuano ad aggiungersi date, dimostrando un affetto del pubblico ancora solidissimo dopo tanto tempo.
È anche un Max Collini un po’ ingrassato, con la barba più lunga e qualche ruga in più, ma è ancora sempre lui, istrionico, ironico, militante, neosensibilista. Forse ha studiato di più la parte e oggi la narrazione ha cambiato inflessione rispetto all’originale. Pur tra le pieghe di una cadenza reggiana riconoscibilissima e ormai iconica, il racconto appare a volte più recitato, più teatrale nel marcare questa o quella frase, dando ai pezzi una veste nuova. Daniele “Felpa” Carretti lo affianca con il consueto garbo, concentrato a dare forma a suoni che non sono invecchiati nemmeno un po’, a loop sonori distorti ed elettronici che ci fanno muovere le gambe ormai stanche, dopo anni di concerti in giro e vent’anni in più che si sentono tutti.
Un passo più indietro, con la giusta e rispettosa distanza ma con una presenza perfetta, c’è Mattia Ferrarini, polistrumentista reggiano dalla sensibilità (altro che quella di Giusva!) davvero affine al gruppo, per provare a colmare una mancanza pesantissima, percepibile fin dalle prime note. Enrico Fontanelli manca da quasi undici anni e sorride beffardo dall’alto, sembra dire: ce l’avete fatta stronzetti, a tornare su quel palco anche senza di me, ne ero sicuro! Mancano: la sua testa china, la sua concentrazione quasi ascetica, il suo estro nel costruire un’estetica grafica neosocialista credibile e quei tappeti catchy a base di Casiotone e Moog, che anche senza parole sarebbero pezzi perfetti su cui ballare a una festa con la birretta in mano.
Dalle prime note di Kappler, alle ultime d’obbligo con il tormentone Robespierre, il live alterna in ordine sparso tutte le tracce del primo album e alcuni tra i brani più noti degli altri due: una messa cantata parlata che conosciamo a memoria sillaba dopo sillaba e siamo pronti a rimandare in faccia agli Offlaga. Ma forse questi vent’anni ci hanno davvero preso tutto: non siamo più quegli eroi, pronti assieme a affrontare ogni impresa, direbbe Guccini. Per chi come me aveva vent’anni allora è cambiato tutto, sono stati gli anni dello studio, del lavoro, della famiglia, del mutuo, infine dei figli. Ogni volta che estraggo il telefono dalla tasca per fare qualche timida foto nel buio, l’immagine delle mie figlie sullo sfondo mi ricorda chi sono oggi e la vita vissuta nel mezzo, personale e non solo. Una pandemia, alcune guerre, persone care che se ne sono andate, e tanti, tantissimi governi. Certe cose non cambiano mai, altre troppo: il 2 agosto del 1980 sembra una vita fa ma fa ancora malissimo, però nel 2005 non c’erano gli smartphone, non c’erano i social, non c’era quasi YouTube, non c’era Satispay, con cui pagare la maglietta al banchetto del merch. Perfino il merch forse all’epoca non si chiamava con questo nome di merch.
Il mondo come lo conosciamo è cambiato e anche il pubblico presente sembra un po’ invecchiato, più stanco, forse è venuto per affetto, per ricordare e celebrare qualcosa che è stato e ora non li rappresenta più come un tempo. Sarà che siam gente fredda, sarà che non c’è il mare a Ferrara. Il tempo ha fatto il suo corso: si vedono meno pugni alzati, meno trasporto, meno frasi memorabili urlate indietro al palco, nemmeno la straziante “ci hanno davvero preso tutto” che si apre poi in un riff post rock liberatorio ed è ogni volta un pugno nello stomaco. Siamo sempre noi, ma più imbolsiti: forse lavoriamo troppo o la vita ci costringe a fare troppe cose insieme.
Tutto sommato gli Offlaga sembrano quelli che ne sono usciti meglio: i pezzi suonano ancora come un tempo? Si, al netto di qualche piccolo ritocco è tutto distorto e sghembo come un tempo, si ride, si piange, si riflette, è tutto stupendo e irrinunciabile come un 25 aprile. Per fortuna in tanti alzano le mani per fare il gesto del 6% sul finale di Robespierre e un ragazzo sventola la bandiera dell’ANPI mentre ascolta Sensibile. A fianco a me un ragazzo piange, ma forse ha fumato davvero troppo, nel dubbio non ho chiesto. Anche i wafer boemi per fortuna non sono finiti: Collini ne lancia alcuni verso il pubblico e come al solito non ne prendo nemmeno uno, così tocca tenere da conto quello che mantengo chiuso (ammuffito?) dal lontano 2007, acquistato rigorosamente a Praga una delle due volte in cui ho esordito nella vita notturna al Lucerna.
Dubček direbbe che poteva andare diversamente, e almeno lui ha fatto in tempo a vedere la differenza a volta astratta tra un regime imposto con i tormentoni estivi ed uno imposto più sottilmente con TikTok, le piattaforme, Sanremo. Al tempo del disimpegno social un disco come Socialismo tascabile suona ancora più prezioso perché racconta di un tempo che se non sembra migliore almeno era più genuino e onesto. È un bignami di storia da tramandare alle nuove generazioni, uno spaccato di un’italietta che lottava, si confrontava, si incazzava e cercava di capire. Festeggiarne la sua importanza nel panorama musicale di oggi, pur inseguendo la moda dei live celebrativi di vecchi album, è doveroso e si spera sia solo l’inizio di un percorso che porti Collini e soci a produrre presto nuova musica. Magari raccontando le contraddizioni di un socialismo in contrazione, delle telefonate tra Putin e Trump, delle scissioni del PD, della gentrificazione delle città emiliane, della sanità pubblica impossibile, delle storture del mercato.
“Vicino a Reggio Emilia, in Italia, travolta da insolito disgusto, il compagno Collini ha di nuovo qualcosa da dire ed è sceso tra noi con nuove storie contrarie alla democrazia nei sentimenti.”
Sono sicuro che anche l’Unità non potrebbe non dire niente.
Nasce a Ferrara nel 1983, dove vive in una casa bianca con una ragazza mora e due bimbe bionde. Giornalista pubblicista, dal 2006 si occupa di graphic design e comunicazione per il web, cofondatore di Contrarock, è stato vicepresidente di Factory Grisù. Ha fondato e diretto il magazine Listone Mag e il blog Ciccsoft. Ha un cane Lego di nome Cagnazz e un pianoforte in salotto per suonare, ogni tanto. Ama il minimalismo, la tipografia, il bianco e nero, New York, le foto storte, l’odore di terra bagnata, il tepore dentro la macchina in autunno.