L’8 marzo alle 10 avrà luogo il webinar ad accesso libero “Usare il linguaggio di genere e genderless. Ragioni della lingua o della cultura?” organizzato dall’Università di Ferrara con l’intervento di Vera Gheno, linguista, scrittrice ed esperta di comunicazione digitale. Tra le sue ultime opere: Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole (2019), Potere alle parole. Perché usarle meglio (2019), Prima l’italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure (2019), Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole (2021).
Un po’ di contesto per inquadrare l’argomento: negli ultimi anni pensatori, linguisti e fruitori della lingua italiana hanno pensato di sperimentare diverse soluzioni per renderla maggiormente neutra, per due motivi principali:
– combattere l’uso normalizzato del plurale maschile sovra-esteso quando si parla di una moltitudine di persone (se in una biblioteca ci sono 150 donne e 1 uomo, si dovrà comunque dire “i lettori”, usando appunto il plurale maschile);
– includere nell’ambito comunicativo anche quelle persone che non si riconoscono nel binarismo di genere, cioè che non si definiscono né uomini né donne.
Ma è davvero una necessità così fondamentale? Non ci sono cose più urgenti cui pensare? (cit.) È vero che le persone non binarie sono “solo” l’1% della popolazione, ma il punto è proprio che… non è questo il punto. Le parole definiscono noi stessi e contano perché solo se ho un nome, solo se so come definirmi, esco dall’invisibilità ed esisto anche per gli altri. Si tratta piuttosto di un atto politico: restituire legittimità e potere di auto-definizione a una categoria di persone che finora non l’ha avuto.
A livello teorico, la sperimentazione che sembrava la scelta migliore era quella del morfema schwa (lo avrete visto spesso, scritto con il simbolo ǝ,) come desinenza neutra delle parole che altrimenti andrebbero accordate al maschile/femminile: un suono neutro per comunicare neutralità: ragazzǝ, tuttǝ, biondǝ… In realtà bisogna ammettere che esistono dei forti limiti: si rivela abilista (i sistemi di lettura automatica per non vedenti faticano a riconoscerlo, non aiuta i dislessici), è ageista (una difficoltà di lettura in più per gli anziani), oltre che essere di difficile introduzione nel parlato quotidiano delle persone.
Il dibattito all’estero esiste già da anni e si inserisce nella lotta per l’uguaglianza portata avanti dalle minoranze e dalle donne per veder riconosciuti i propri diritti. L’argomento è decisamente complesso e l’incontro a Ferrara può essere utile per approfondire, ma abbiamo avuto occasione di rivolgere qualche domanda ulteriore a Vera, per capire meglio il suo lavoro e le sue proposte.
Vera, al momento le persone attorno a me si dividono in due gruppi: una bolla di attiviste, attivisti e alleati LGBTQI+ che partecipa alla discussione sulle questioni di genere, e chi invece non ha idea di cosa siano e le denigra tout court. Ti chiedo: come iniziare un dialogo costruttivo con chi vede i tentativi di rendere la lingua più fluida come un attacco alle proprie certezze?
Guarda, ti faccio una contro-domanda: c’è bisogno di un dialogo costruttivo con chi la pensa in maniera diametralmente opposta a noi? Penso che ci sia bisogno di divulgare e di informare verso chi vuole capire meglio la questione, verso chi è già nello stato d’animo di saperne di più e si avvicina alla materia con curiosità. Cercare di “convertire” chi la pensa in modo del tutto diverso è solo fatica sprecata. Magari, si può sperare che divulgando ci siano più persone che si fanno prendere dalla curiosità.
Come anticipavo, lo schwa presenta alcuni limiti, oltre a essere di difficile introduzione in una lingua storicizzata e apparentemente conservatrice come l’italiano. Le stesse persone LGBTQI+ spesso non lo usano, ritenendolo limitante. Allora quale alternativa esiste, in italiano, al momento?
Nei gruppi LGBTQIA+, transfemministi, anarcafemministi, intersezionali… accanto allo schwa sono in circolazione tante altre soluzioni: la u, la @, la z, la x, l’apostrofo eccetera. Non è che ci sia una gara tra tutti questi escamotages; semplicemente, ogni gruppo si è un po’ inventato una soluzione “fatta in casa”. Diciamo che l’alternativa più immediata è “dribblare” ove possibile l’uso del maschile sovra-esteso, per esempio ricorrendo ad alternative semanticamente neutre (persona, individuo, essere umano, ecc.) o circonlocuzioni (la popolazione studentesca, la cittadinanza, ecc.) o, ancora, usando aggettivi epiceni, cioè ambigeneri (es. “attraente” invece di “bello/bella”).
Esistono esempi che illustrano come una lingua abbia subito un cambiamento marcato per adattarsi alla realtà circostante?
In realtà la lingua si adatta sempre alle esigenze dei suoi parlanti; da questo punto di vista, non sta succedendo nulla di eccezionale. Direi che il problema più grosso è il cambiamento di prospettiva sul genere richiesto per comprendere anche l’istanza: passare da una visione binaria, maschio-femmina, a una visione del genere come spettro, quindi con tante possibili sfumature. Comunque, in altre lingue sono in corso sommovimenti simili. Ad esempio, lo spagnolo e il portoghese stanno implementando il plurale inclusivo in -e (“muchaches”), ugualmente osteggiato dalla Real Academia Española…
La tua riflessione sulla dinamica di potere insita nella parola “inclusività” mi ha molto colpito: descrive la situazione in cui un privilegiato dall’alto della sua posizione decide di includere una minoranza che subisce questo atto, col loro permesso. Mi chiedo quindi quante altre trappole linguistiche esistono in italiano, che magari usiamo quotidianamente?
Devo la riflessione al mio amico, lo studioso della diversità Fabrizio Acanfora. Altrimenti, dall’alto del mio privilegio, non ci avrei mai fatto caso. Direi che il modo in cui usiamo la lingua è pieno di trappole del genere. Ma non sono trappole della lingua, bensì dissimmetrie e ingiustizie che causiamo noi con i nostri usi e costumi linguistici. Un esempio? Insultiamo una donna facendo riferimento ai suoi presunti costumi sessuali, mentre un uomo lo insultiamo dandogli di “figlio di”. Insomma alla fine la “colpa” è sempre della donna.
A proposito di donne e professioni, perché anche chi si identifica come donna è infastidita nel pronunciare “assessora” o “ingegnera”? Pensiamo di essere protettori della lingua italiana e invece siamo solo sessisti e conservatori?
In primis, perché molte non ne vedono la necessità; o meglio, non si rendono conto che anche gli usi individuali contano sullo stato complessivo della nostra lingua e della nostra società. Poi, perché molte donne si trovano a loro agio nel sistema patriarcale: non scorgono alcun bisogno di femminismo, o di cambiare le cose. Inoltre, molte lo fanno per inerzia: definirsi al femminile provoca spesso discussioni aggiuntive, mentre usando il maschile si hanno semplicemente meno grattacapi. Infine, non sono poche le donne che ritengono più prestigioso il titolo al maschile. Ma qui il problema non è linguistico, bensì di auto-percezione delle donne…
Parlando di comunicazione digitale, caotica e luogo di sfogo di beceri istinti, nel tuo saggio Le ragioni del dubbio indichi una possibile strada per comunicare in modo efficace, umile e competente. Ti chiedo: come possiamo comunicare con rispetto reciproco in un mondo che ci assale di parole e fatti, ci confonde e spaventa? È forse un’utopia?
Secondo me, riducendo anche il metodo che propongo, il DRS cioè dubbio-riflessione-silenzio all’osso: la risposta sta tutta nel comunicare meno, e di conseguenza comunicare meglio.
Grazie alle risposte di Vera credo che il dibattito sull’uso dello schwa stia già avendo effetti positivi:
– aver denunciato la mancanza di modalità linguistiche neutre e aver esportato questo dibattito al di fuori dei circoli chiusi in cui già se ne parlava;
– avere fatto da apripista ad altre possibili feconde sperimentazioni linguistiche, non per forza solo in ambito di genere;
– averci ricordato che il linguaggio è strumento fluido: non esiste come norma immutabile al di sopra di chi lo parla, ma esiste per permettere ai parlanti di descrivere la realtà che vivono, anche quella che fino a poco fa non vedevamo.
INFO:
L’incontro si svolge martedì 8 marzo dalle 10.00 alle 12.30 in diretta dall’Aula Magna del Dipartimento di Economia (Via Voltapaletto 11). E’ possibile partecipare solo online, gratuitamente e previa iscrizione a questo link.
È garantito il servizio di interprete nella Lingua dei Segni Italiana (LIS).