

di Anna Chiara Venturini
La Cella Massari si trova nell’area del primo Gran Claustro della Certosa di Ferrara, sulla destra rispetto alla Chiesa di San Cristoforo (n. 14 nella mappa cimiteriale). Accoglie le spoglie della famiglia Massari.
Dapprima merciai, poi imprenditori e banchieri, ricopriranno nella seconda metà dell’Ottocento una posizione sociale di rilievo in città. Proprietari di terre, rampanti imprenditori e cultori dell’arte, hanno abitato in diversi palazzi, l’ultimo in corso Porta Mare, oggi di proprietà comunale, dove vedremo riaprire i battenti del Museo dell’Ottocento e di quello dedicato a Giovanni Boldini.
Ma non mi soffermerò sulla storia di questa ramificata famiglia, di cui è già stato scritto, piuttosto su questa Cella, dove nel 1880 fu collocato il monumento funebre scolpito da Giulio Monteverde.

E ora uno sguardo alla Cella. Sulle pareti color cotto e ocra si distinguono i tondi funerari di famiglia, simboli araldici, il busto di Galeazzo eseguito dal Legnani, quello di Giacomo Milan Massari, il bassorilievo di Pimpi, figlio di Galeazzo morto a soli 7 anni, e la statua del Genio del Commercio del Baruzzi. Due le porte e tre i lucernari. Sul lato meridionale, lei, la scultura del Monteverde: un capolavoro, tra i più belli presenti in Certosa.
Mi preme però fare il punto sulla committenza e l’identità del defunto, per sgombrare il campo da un’aneddotica, magari gradevole, ma poco documentata. Albero genealogico e archivi famigliari alla mano: il defunto è il conte Francesco (1803/1875), il committente il figlio Galeazzo (1841/1902).
Siamo davanti ad un grande angelo di marmo dai capelli inanellati, ali distese e bianche. La tunica dall’angelo evoca l’impalpabilità della mussola indiana. Il corpo del conte è avvolto in un lenzuolo, che ne lascia scoperte le spalle, la testa sprofondata nel cuscino, il volto incorniciato da ricciute basette.
D’estate, quando il sole è alto, un fascio di luce di memoria caravaggesca illumina l’intero ambiente, a dir poco emozionante.
Oggi la Cella, pur nell’indiscussa sua bellezza, necessita di un severo intervento di restauro. La vetustà del materiale murario, i danni arrecati dall’umidità di risalita, le infiltrazioni d’acqua e il terremoto del 2012 non concedono sconti. La scultura presenta gravi accumuli di sporco, crepe trasversali sul corpo del defunto, dovute sia al terremoto che a sbalzi termici.
Intanto qui il tempo continua implacabile la sua opera.

Dall’ottobre 2024 la Cella non è più accessibile al pubblico. La critica condizione delle sepolture a terra e la difficoltà di reperire i contatti con i concessionari rendono al momento del tutto imprevedibile, per la Holding Ferrara Tua, la determinazione dei tempi di risoluzione del problema.
A noi, per ora, resta la consolazione di ricordare che, a metà dell’Ottocento, le famiglie aristocratiche e la nuova borghesia commissionavano monumenti funerari per celebrare il proprio privilegio sociale.
E ora provate ad immergervi nel silenzio dei lunghi porticati, perdetevi nei vialetti della Certosa. Uscirete con la testa piena di bellezza. Vedrete elementi architettonici scanditi da grandi arcate, scoprirete busti, bassorilievi e lapidi che assolvono il compito di mettere in luce i famigliari distintisi per meriti, professione e cultura. Noterete particolari scultorei in stile canoviano, scanalature ondulate di richiamo classicheggiante, spirali fitomorfe sui sarcofagi di riminiscenza classica, figure allegoriche con fiaccole all’ingiù, simboli riferiti agli studi, alla professione e virtù dei defunti, cornucopie copiose e aratri pieni di spighe di grano, pilastri vestiti da telamoni, lesene infiorate, muri dipinti con pittura policroma, che simula la scultura o che fa eco al marmo assai più costoso, pareti a tinta monocroma bianca o grigia o nera, suggerita dal cambiamento dei gusti accademici.
Le idee nascevano anche grazie alla circolazione di litografie di traduzione, incisioni a bulino, album illustrati e cartoline, utili repertori per artisti e committenti. La Società Benvenuto Tisi da Garofalo a Ferrara, la Commissione per le belle arti, artigiani, scultori, marmorini e scagliolisti erano pronti a repertoriare amorini, angeli dalle diverse fattezze, figure di dolenti presenti in strategiche nicchie. Maestria artigiana, silente sobrietà, iscrizioni strazianti, visi velati, espressioni struggenti incarnano, da metà Ottocento al primo conflitto mondiale, sentimenti di dolore e disperazione per i perduti affetti. Compaiono busti di benefattori, filantropi, figure femminili giovani e meno giovani, sguardi rivolti al cielo, volti affranti, nascosti sotto panneggi e veli, vedove inconsolabili, piccoli orfani, bambine piangenti per la perdita del genitore, padri, e soprattutto madri, disperati per la morte di un figlio.
Tutto quanto ho scritto sopra nasce dal desiderio di approfondire un tema che mi porto dentro dai tempi della laurea, quando discussi presso l’Ateneo bolognese una tesi sulla quadreria Massari. Quella fu la prima volta nella quale mi dedicai a questa famiglia, il cui Palazzo in corso Porta Mare verrà finalmente restituito a noi ferraresi e non solo.

Il resto delle considerazioni artistiche, storiche e storiografiche contenute in questo contributo è il risultato della curiosità che mi spinge da sempre a capire la storia di chi ha fatto grande Ferrara. E forse, oltre alla curiosità, c’è anche la speranza di sollecitare l’attenzione dei soggetti istituzionali, che hanno a cuore la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico locale, perché individuino le risorse utili al restauro e la procedura più opportuna presso i concessionari, oggi difficilmente rintracciabili.
Sono, come scriveva Eugenio Riccomini, tra quelli che varcano il cancello ed entrano in Certosa per passeggiare, per camminare tra i chiostri, scoprire tombe, guardare fotografie, ammirarne la bellezza, sentirne il silenzio e tornarci.
Implicazioni emotive? Sì, può darsi.
Nella Certosa di Ferrara pitture, sculture, apparati decorativi sono la voce di epoche che ancora vivono all’ombra dei porticati. Sono tutte espressioni della genialità di chi le ha create, a testimoniarne l’incredibile bravura tecnica e artigianale.
Dobbiamo forse aspettare che le ali del tempo aumentino la sofferenza del Monumento? Che l’umidità addenti la materia di cui sono fatte Cella e scultura? Che il buio della struttura inghiotta il capolavoro di Giulio Monteverde?
Se accadesse, significherebbe che non l’avremo protetta abbastanza o che avremmo dovuto amarla più di quanto non sia stato fatto finora.


La redazione di Filo Magazine è composta da un gruppo di giovani appassionati di giornalismo e comunicazione: abbiamo tra i 20 e i 40 anni e viviamo a Ferrara. Ci piace raccontare la città che cambia giorno dopo giorno, scoprendo con curiosità le novità del momento e ripescando le storie più interessanti del passato. Grazie per il tempo che trascorri sulle nostre pagine: se ti piace quello che scriviamo, puoi iscriverti alle newsletter o seguirci sui nostri profili social. Se ti piace scrivere e pensi di avere la stoffa giusta allora unisciti a noi!