L’arte di creare legami: dialogo con la curatrice Margherita Caselli

Iscriviti al nostro canale Whatsapp

Curare significa prendersi cura, mettere in relazione vari elementi, selezionare, organizzare e interpretare. Il ruolo del curatore si è evoluto nel tempo, passando dalla conservazione alla creazione di significati, capace di innescare infinite riflessioni. Se nel passato, il focus era maggiormente sulla tutela e la didattica, oggigiorno il curatore potrebbe essere considerato un intermediario, una figura che fa da ponte tra artisti, pubblico e istituzioni, costruendo dialoghi e comunità. Sovente, un’esibizione diventa un linguaggio a sé, capace di influenzare la percezione delle opere e ridefinire lo spazio espositivo. In questa prospettiva, la pratica curatoriale mira a immaginare nuovi modi di fruizione e interazione.

Margherita Caselli, nata e cresciuta a Ferrara, sta cercando di trasformare la sua passione per l’arte contemporanea in una professione. Con determinazione e curiosità, ha scelto Torino come città in cui affinare le sue competenze, dove ha frequentato il corso per curatori Nice promosso da Paratissima e grazie al quale ha vinto una borsa lavoro e co-curato la mostra Materia Madre durante l’Art Week di Torino del 2024. Parallelamente alle sfide che sta affrontando nell’ambito della pratica curatoriale, lavora con grande dedizione ed entusiasmo come mediatrice museale presso varie realtà torinesi. In questa intervista, ci racconta il suo percorso, le soddisfazioni e i suoi sogni.

foto di Marco Caselli Nirmal

Quali sono i tuoi punti di riferimento nell’arte contemporanea?
Ho sempre avuto un forte interesse per il ruolo delle donne nell’arte. La mia tesi della laurea triennale era incentrata sul rapporto tra Carla Accardi (artista) e Carla Lonzi (critica d’arte e saggista), con un focus sulla loro collaborazione nell’ambito del gruppo Rivolta Femminile. La dimensione femminile è altresì alla base della mostra che ho curato a novembre (Materia Madre), in cui ho affrontato la tematica della maternità da una prospettiva meno romanzata.

Inoltre, ciò che ha influenzato maggiormente il mio approdo al mondo dell’arte è l’ambito familiare. Sono cresciuta in un ambiente artistico – mio padre, Marco Nirmal Caselli, è un fotografo di scena, mentre mia mamma Cristina Gualandi è una drammaturga -, perciò fin da piccola ho frequentato studi d’artista e avuto contatti diretti con il mondo dell’arte. Il teatro, la musica, la fotografia, la danza sono stati dei punti centrali nella mia vita. Tuttavia, ho cercato di trovare una mia strada e di sviluppare una visione personale sull’arte contemporanea, che ancora rimane in parte incompresa dal grande pubblico.

Qual è il tuo rapporto con la scena artistica di Ferrara?
Pur essendo di Ferrara, negli ultimi anni ho vissuto altrove, tra Praga e Torino. Ho contatti con alcuni artisti ferraresi, ma sono ancora in fase di scoperta. Conosco bene Romolina Trentini, amica di famiglia oppure Maurizio Camerani che ho aiutato nell’allestimento della sua ultima mostra alla Galleria Umberto Benappi di Torino, In-Equilibrio. C’è stato un periodo di grande fermento tra gli anni ’70 e ’90 grazie a figure come Franco Farina e Lola Bonora, che portarono artisti del calibro di Andy Warhol. Oggi, invece, la scena è meno dinamica e il contemporaneo non sembra essere al centro delle politiche culturali cittadine.

Cosa significa per te curare una mostra? Quali sono gli aspetti fondamentali da considerare nell’ideazione e nella pianificazione? Qual è l’obiettivo principale che ti poni?
Per me, la curatela inizia dallo spazio espositivo e dagli artisti coinvolti. La base di tutto è il rapporto umano: l’incontro con gli artisti, la comprensione delle loro ricerche e del modo in cui si relazionano alla propria opera.
Quando un artista è profondamente immerso nel proprio percorso, anche se in evoluzione, percepisco una passione e una necessità creativa che mi spingono a diventare un megafono per queste voci. Il mio obiettivo è trasmettere al pubblico i tesori nascosti negli studi degli artisti, un impegno che porto avanti non solo attraverso l’organizzazione delle mostre, ma anche con la scrittura, come nel caso dei miei contributi per Exibart.

Come definiresti il ruolo del curatore?
Per me, curare una mostra significa innanzitutto costruire relazioni umane. Parto sempre dal dialogo con gli artisti e dalla comprensione delle loro ricerche. Cerco di far emergere le loro voci e di trasmettere al pubblico il valore del loro lavoro. La mediazione è un aspetto centrale della mia pratica: credo che il contatto diretto con le opere e l’ausilio di un mediatore possano fare la differenza nella comprensione dell’arte contemporanea.

Inserzione pubblicitaria

Qual è la differenza principale tra curare una mostra e raccontarla? Ti identifichi maggiormente nel ruolo di mediatrice oppure in quello di curatrice?
Curare una mostra significa intrecciare vari elementi – spazio, artisti, idee – come in una trama che prende forma. Il mediatore, invece, si concentra sulla relazione con il pubblico. Entrambi i ruoli condividono l’obiettivo di comunicare, ma con approcci diversi. Il curatore agisce come un megafono, trasmettendo un’idea e un messaggio, mentre il mediatore, adatta il contenuto ai diversi interlocutori, semplificando e rendendo l’esperienza accessibile a qualsiasi tipologia di pubblico. Si può immaginare questo processo come un’onda: il curatore la genera, mentre il mediatore la porta fino al pubblico, assicurandosi che arrivi a tutti.

foto di Marco Caselli Nirmal

L’arte ha un ruolo sociale? Ha il compito di sensibilizzare la società o influenzarla rispetto ai temi attuali o deve mantenere un ruolo indipendente?
Credo che l’arte possa contribuire a sensibilizzare e cambiare la società, ma non deve essere un obbligo. L’arte ha inevitabilmente un impatto sulla società, ma non tutti gli artisti devono necessariamente assumersi questa responsabilità. Alcuni artisti scelgono di affrontare tematiche attuali, altri preferiscono distaccarsene. Entrambe le posizioni sono legittime e arricchiscono il panorama artistico.

Come vedi l’evoluzione del ruolo del curatore?
Negli ultimi anni, la figura del curatore è diventata più riconosciuta e diversificata. Oggi si può curare quasi tutto e questo porta a un’espansione del mestiere, ma anche alla necessità di ridefinire i suoi confini. Penso che in Italia ci sia ancora strada da fare per valorizzare questa professione.

Quali sono i tuoi riferimenti nella curatela?
Apprezzo molto il lavoro di Chiara Bertola o quello di Lucrezia Calabrò Visconti, giusto per citare alcuni nomi. A livello internazionale, ci sono molte figure che mi influenzano, ma mi piace osservare anche chi sta portando innovazione senza essere ancora nell’Olimpo della curatela.

Come ha influenzato la tua formazione l’esperienza con Paratissima e Nice
Ho scelto di partecipare a Nice perché cercavo un punto di partenza concreto e sapevo che questo corso mi avrebbe dato la possibilità di curare realmente una mostra, cosa che spesso i percorsi per curatori non offrono, rimanendo più teorici.

L’esperienza più preziosa è stata il confronto con i miei compagni di corso, che ha arricchito il mio bagaglio di conoscenze. Sul piano pratico, ho acquisito competenze organizzative e gestionali fondamentali, aspetti che sto ancora affinando. La teoria era già parte del mio background in storia dell’arte contemporanea, ma ciò che Nice mi ha insegnato è che non esiste un unico modo di essere curatore, ogni esperienza è diversa e la chiave è sapersi adattare.

foto di Marco Caselli Nirmal

Quali sono i tuoi prossimi progetti di ricerca?
Vorrei approfondire lo studio della maternità nell’arte, analizzando i collettivi di artiste madri in Europa. In questo senso, uno dei miei riferimenti è la ricercatrice inglese Hettie Judah, che ha studiato la condizione delle artiste madri nel sistema dell’arte. Mi interessa mappare queste realtà e analizzare il loro impatto sul panorama artistico contemporaneo.


Margherita Caselli ha curato la mostra Non-Functional Relations alla OttoFinestre (Torino), attualmente in corso (fino al 28 marzo). Una doppia personale che esplora di significato di funzione, utilità e forma. La relazione tra le opere e lo spazio è approfondita attraverso le opere di Federico Falanga e Daniele Zerbi. Le loro ricerche si inseriscono in quella che è definita la Non-Functional Design Art, una categoria/pratica che si colloca al confine tra arte, design e architettura, tra dis-funzione e nuovi orizzonti di senso.

Iscriviti al nostro canale Whatsapp
Lascia un commento Lascia un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articolo precedente

Ferrara Nerd fa centro: la cultura pop e cosplay riempie la fiera

Articolo successivo

Santo Spirito a Ferrara: un piccolo cinema per grandi visioni

Inserzione pubblicitaria