Il cielo sopra Chagall: ritratto affascinato di un cuore sempre sul punto di scoppiare, o di sbocciare

La dolcezza e la crudezza della vita del pittore è in mostra a Palazzo Diamanti: ecco il ritratto di un artista tanto spirituale quanto carnale
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Il viso ebete di un cavallo e quello mesto e austero di un rabbino. Un volto etereo di donna, capre e saltimbanchi, un Cristo. La dolcezza di due sposi avvinghiati, la rossa barba di un vecchio ebreo. E il cielo, il cielo… morbido d’azzurro o acceso di un fuoco senz’origine, quinta e palcoscenico su cui tutto si svolge. È la vita che danza, è un ballo popolare quello che anima le tele eterne di Marc Chagall. Questo sogno fatto di carne e dei suoi mille segni, lo possiamo ammirare in città fino a febbraio 2026, a Palazzo dei Diamanti, nella mostra Chagall, testimone del suo tempo.

Storia di un viandante, dalla Russia alla Francia
Marc Chagall (trascrizione francese di Moishe Segal) nasce il 7 luglio 1887 in una famiglia ebraica a Lyozno, presso Vitebsk, una città di lingua yiddish in Bielorussia, allora parte dell’Impero russo. È il maggiore di nove figli e figlie in una famiglia di tradizione chassidica: il padre Khatskl è un operaio addetto alla salamoia presso un mercante di aringhe, la madre si chiama Feige-Ite. Nel 1906 Marc inizia a studiare pittura alla scuola-laboratorio del maestro Yehuda Pen e l’anno dopo si trasferisce a San Pietroburgo dove frequenta l’Accademia Russa di Belle Arti e poi la scuola Zvanceva. Ogni tanto torna nel paese natale: è qui che nell’autunno del 1909 incontra, grazie alla modella e amica Thea Brachmann, Bella Rosenfeld, figlia di ricchi orefici. Nel 1910 si trasferisce a Parigi, nel 1915 sposa Bella e l’anno dopo nasce la loro bimba Ida.

Yehuda Pen, Ritratto di Marc Chagall (1915), Museo di arte moderna di Vicebsk

Nel 1917 prende parte attiva alla Rivoluzione russa e a Vitebsk fonda la Libera Accademia d’Arte e il Museo di Arte moderna, poi si trasferisce a Mosca dove insegna arte agli orfani di guerra. Nel ’23, dopo un breve soggiorno a Berlino, torna a Parigi. Qui il mercante Vollard gli commissiona varie illustrazioni, soprattutto per la Bibbia, che è fin dall’infanzia il suo libro preferito. Nel 1941 la famiglia Chagall si stabilisce negli USA dove il 2 settembre 1944, a New York, Bella muore. Dopo una forte depressione, Chagall conosce la canadese Virginia Haggard McNeil, da cui nel 1946 avrà un figlio, David. Dopo un breve soggiorno a Parigi, nel ‘49 si stabilisce ad Orgeval, nell’Île-de-France. Dopo la fine del rapporto con Virginia, nel ’51 conosce Valentina “Vavà” Brodsky con cui si risposa nel 1952: sarà anche la sua nuova musa ispiratrice. Chagall muore a 97 anni a Saint-Paul-de-Vence, dove risiedeva, il 28 marzo 1985. Viene sepolto nel piccolo cimitero locale.

Lacrime, grazie e un pennello
Nelle sue opere, così come nella sua autobiografia 1, le immagini roteano assieme alle parole, in un vortice a un tempo confuso e ordinato di sogno e cruda realtà, di gaiezza infantile e amara consapevolezza. Malinconico è Chagall, e gioioso. I suoi “occhi di fauno” – come li descrisse Bella quando li vide per la prima volta – sono anche quelli di un angelo. Di un’anima particolarmente sensibile al fluttuare misterioso del mondo, all’aleggiare dello Spirito sulle acque, sulla terra, sulle creature. Fin da bambino Chagall conosce i piccoli grandi strazi del vivere, la dolcezza e l’ambiguità di chi Dio ci ha affiancato nella condivisione e nella lotta, nel pianto e nelle ebrezze. Già il piccolo Marc sembra capire. Sente la vita e ciò che infinitamente la supera.

Parigi, metà degli anni Venti: Chagall, nel suo studio, ritrae Bella. Dietro la figura dell’artista si nota il dipinto Il compleanno, del 1915 (oggi a New York, Museum of Modern Art)

E la vita della sua amata e odiata Vitebsk non è – come spesso, superficialmente, è stato detto – una vita fiabesca ma la stessa realtà, senza tanti veli agli occhi di chi sa coglierla: “E tu, vacchetta, nuda e crocifissa nei cieli, tu sogni”, scriveva pensando alle bestie che il nonno macellaio uccideva. “Il coltello splendente t’ha fatto librare nell’aria (…). Le pelli seccavano santamente, dicevano tenere preghiere, pregavano il cielo-soffitto per l’espiazione dei peccati dei loro carnefici”. Sulla propria fede, mai ostentata, sempre vissuta, cantata in una lode ironica e affettuosa: “Giorno infinito! (Yom Kippur, ndr) Prendimi, fammi più vicino a te. Di’ una parola, spiega! (…) Se Tu esisti, rendimi azzurro, focoso, lunare, nascondimi nell’altare con la Torah, fa’ qualcosa, Dio, in nome di noi, di me”.

L’arte è l’esistere, in Chagall, non esiste questo fuori dalla prima. Con lo zio Neuch vaga nella campagna e nelle piazze e così immortala ciò che vede: “Tutti, là, mercanteggiano e dietro la cassa stanno sedute le ragazze. Io non ci capisco nulla. Sono appena arrivato e loro mi chiamano dalle botteghe e mi sorridono. Ho i capelli che fanno i ricci. Le ragazze mi offrono delle sfoglie, dei pasticcini. Invano matura la giovinezza. Ne ho forse colpa io? Non posso dunque straziarmi?”. E poco più avanti, sempre riferito al mercato: “Le aringhe nei barili, l’avena, lo zucchero a forma di testa aguzza, la farina, le candele nei cartocci azzurri, tutto viene venduto. Le monete tintinnano. I mugik, i mercanti, la gente di Dio, tutti borbottano, tutti puzzano”. Questo cuore sempre sul punto di scoppiare, o di sbocciare, soffrirà le doglie di un parto necessario. Ci vorranno lacrime, derisioni, solitudine, poi l’emergere – dagli occhi e dalle mani – di veri capolavori.

Chagall, Io e il villaggio (particolare), cm 192 x 151, olio su tela, 1911

“Sono entrato in una casa e non ne sono più uscito”
Una prima rinascita avverrà – nel 1909 – grazie a Bella: “Il suo silenzio è il mio”, scrive ricordando il loro primo incontro. “I suoi occhi, i miei. È come se mi conoscesse da sempre, come se sapesse tutto della mia infanzia, del mio presente, del mio avvenire; come se vegliasse su di me, mi capisse perfettamente, sebbene la veda per la prima volta. Sentii che era lei la mia donna. Il suo colorito pallido, i suoi occhi. Come sono grandi, tondi e neri! Sono i miei occhi, la mia anima. (…) Sono entrato in una casa nuova e non ne sono più uscito”. Anche Bella racconterà quel giorno senza tempo2: “Un viso di ragazzo prende forma. Un viso bianco quanto la parete (…). Ha i capelli scompigliati. I suoi ricci ricadono giù, si arrotolano, si incollano alla fronte, nascondono occhi e sopracciglia. Ma quando gli occhi si aprono un varco sono blu, venuti dal cielo. Occhi stranieri, non come quelli di tutti, lunghi, a mandorla (…). Non ho mai visto occhi simili da fauno, se non in un bestiario illustrato. Bocca spalancata, non so se intenda parlare o mordere con i suoi denti bianchi e taglienti”. E poco dopo: “Per caso è nei suoi occhi o nel fiume che sto nuotando? (…) I suoi occhi, come lame, squarciano l’oscurità”.

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Marc and Bella Chagall, foto di Hugo Erfurth, 1923

Sei anni dopo, il giorno del compleanno di Chagall, lei va a trovarlo nel suo studio, gli fa una sorpresa: nascerà il dipinto Il compleanno; lui le dice: “Non muoverti, resta dove sei…”. Racconta lei: “Ho ancora i fiori in mano. Non riesco a stare ferma. Vorrei metterli nell’acqua. Appassiranno. Ma subito li dimentico. Ti sei gettato sulla tela che vibra sotto la tua mano. Intingi i pennelli. Il rosso, il blu, il bianco, il nero schizzano. Mi trascini nei fiotti di colore. Di colpo mi stacchi da terra, mentre tu prendi lo slancio con un piede, come se ti sentissi troppo stretto in questa piccola stanza. Ti innalzi, ti stiri, al soffitto svolazzi. La tua testa si rovescia all’indietro e fai girare la mia…Mi sfiori l’orecchio e mormori…Ascolto la melodia della tua voce dolce e grave. Persino nei tuoi occhi si sente questo canto, e tutti e due all’unisono, lentamente, ci libriamo al di sopra della stanza abbellita e voliamo via”. (…) Il tuo cuore si placa. “Tornerai domani? Dipingerò un altro quadro…Voleremo via”.

Chagall, Il compleanno, 1915

Bidoni di latta e anime sante
Nei primi anni dopo lo scoppio della Rivoluzione in Russia, scriverà commentando un’“assemblea degli artisti”: “Ma quando ho udito qualcuno gridare: Me ne fotto della vostra anima. Ho bisogno delle vostre gambe, non della vostra testa, non ho più esitato. Basta! Voglio conservare la mia anima. E penso che la rivoluzione possa esser grande pur conservando il rispetto degli altri”. Sarà per lui una delusione, il potere del mondo che schiaccia la grazia e la bellezza. Sentirsi profeta e rifuggirne con un timido sorriso: così me lo immagino Chagall. In esodo dalla miseria e dalle grettezze, ma senza boria: “Dove andiamo? Cos’è mai questa epoca, che canta inni all’arte tecnica, che divinizza il formalismo? Che la nostra follia sia benvenuta! Un bagno espiatorio. Una rivoluzione di fondo, non soltanto di superficie. Non chiamatemi lunatico! Al contrario, sono realista. Amo la terra”.

Terra che ha vissuto, subìto, amato. Mondo marcio dal quale è stato vomitato ma che mai ha rinnegato. Di San Pietroburgo, ad esempio, ricorderà: “In quei cantucci in comune, con operai e fruttivendoli come compagni, non mi restava che allungarmi sulla sponda del letto e riflettere su me stesso. A che scopo poi? E i sogni mi opprimevano…”. Ancora: “Possibile che non trovi da qualche parte nemmeno un pezzo di pane, su una panchina o un paracarro? (…). L’essenziale è l’arte, la pittura, una pittura diversa da quella che fanno tutti. Ma quale? Dio, o non so chi altro, mi darà la forza di soffiare nelle mie tele il respiro, il respiro della preghiera e della tristezza, la preghiera della salvezza, della rinascita?”. E anni dopo, a Mosca, a un certo punto con moglie e figlia piccola va a vivere nelle colonie Malachovka; così racconta di quando attendeva il treno che ogni giorno lo portava al lavoro: “Vestito del mio gabbano e di larghi calzoni, sopportavo non senza tormento la pressione della folla. Numerose lattaie mi schiacciavano senza pietà i loro bidoni di latta contro la schiena. Mi camminavano sui piedi. I contadini spingevano. In piedi o distesi per terra davano la caccia ai pidocchi. I grani di girasole crocchiavano sotto i loro denti e mi schizzavano sulle mani, sulla faccia. Infine, quando a sera il treno gelido si metteva lentamente in moto, delle canzoni, lamentose e chiassose, echeggiavano nel vagone pieno di fumo. Mi pareva di salire in cielo attraverso le betulle, la neve, le nuvole di fumo, con quelle donne grassocce, quei contadini barbuti che si facevano incessantemente il segno della croce. I bidoni vuoti di latte e pieni di monete rimbombavano come tamburi”.

L’esistenza può essere dunque un duro giogo, e così – seppur in maniera radicalmente diversi – lo possono essere certi freddi intellettualismi, certi formalismi troppo razionali e con poca vita: “Impressionismo e cubismo mi sono estranei”, scrive ancora. “L’arte mi sembra esser soprattutto uno stato d’animo. L’anima di tutti è santa, di tutti i bipedi in tutti i punti della terra. Soltanto il cuore onesto è libero, il cuore che ha la sua propria logica e la sua ragione”. Così sia, sempre. Grazie Chagall.


1 M. Chagall, La mia vita, SE srl, 1998; da lui scritta tra il 1921 e il 1922 (dove non diversamente indicato, d’ora in poi le sue citazioni sono tratte da questo volume).
2 B. Chagall, Come fiamma che brucia. Io, la mia vita e Marc Chagall, Donzelli ed., 2012; scritto da Bella nel 1939, ma pubblicato postumo.


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