Seduta sulla poltroncina rossa del Teatro Comunale, sono in attesa del consueto annuncio “Signori e signore, lo spettacolo sta per iniziare, si prega di spegnere i cellulari…” e di osservare da un momento all’altro le luci sempre più soffuse, fino a ritrovarmi avvolta dal buio. Stavo cercando di rimembrare l’ultimo spettacolo visto prima del Coronacene (come direbbe Chiara Valerio), ma ho un rapporto conflittuale con la mia memoria, ossia si rifiuta di cooperare all’accumulo dei miei ricordi, quindi nulla, non rammento alcun piccolo dettaglio. Sono in fibrillazione, felice di ritornare qui, in questo tempio del possibile e dell’impossibile, in cui le luci, lo spazio, gli oggetti, gli attori compongono la dimensione della meraviglia. Una realtà che ti permette di sospendere momentaneamente la tua storia e di catapultarti nelle vite degli altri. In quest’atmosfera tiepida e vellutata pensavo allo scambio tra noi spettatori e loro, gli attori. Un rapporto forse iniquo, però immenso fatto di aspettative, emozioni e fisicità, certezze e incertezze.
Piazza degli eroi si presenta come un groviglio di tutto ciò. Heldenplatz – il titolo originale – è l’ultima opera teatrale di Thomas Bernhard, pubblicata per la prima volta nel 1988, poco prima della morte dell’autore e proposta in Italia dal regista teatrale Roberto Andò.
Il testo propone tantissime riflessioni delicate e complesse, e comprende svariati aspetti caratteristici del labirinto bernhardiano: si alternano sarcasmo, inquietudine, angustia, comicità e pessimismo. L’autore propone una visione non proprio edulcorata della società o dell’Europa stessa, percepita come un immenso palcoscenico. Un continente in declino segnato da rovine, distruzioni, indifferenza, milioni di persone viste come semplici comparse, lasciate al loro destino. Piazza degli eroi racconta il nazismo e il suo radicamento ancora persistente (“oggi ci sono più nazisti che nel ’38, nazisti ovunque…”), l’antisemitismo – percepito apertamente anche negli anni Ottanta dalla stessa famiglia Schuster “agli ebrei non si può togliere la paura”, il cattolicesimo “oggi sei cattolico o nazionalsocialista, tutto il resto è cancellato”, i valori di una società e la disillusione in merito a quest’ultima.
Caro Bernhard (permettimi questa confidenza), sapessi quanto questi aspetti sono ancora consolidati nella società, tutt’oggi…
Ancora prima dell’inizio del primo atto, noto sparse sul palcoscenico, tantissime scarpe. Una presenza che connota un’assenza anzi, più di una. La prima assenza è quella del professor Schuster, morto suicida come si scoprirà dalle prime battute. L’altra assenza è la coscienza generale sul passato e il presente.
Il personaggio del professore non è mai presente in scena, quantomeno non fisicamente, però è il fulcro della rappresentazione stessa, diventa tramite di tutte le riflessioni poste e dei conflitti presenti. Schuster risulta una mente acuta e brillante, una persona raffinata ma anche egoista, associale, sgradevole. “Un uomo di pensiero” e che come tale è incompreso, destinato a vivere o sentirsi solo, “proclamatosi nemico della società e delle società”. Un uomo in fissa con le scarpe, apparentemente: ne comprava a centinaia ed era abbastanza rigoroso sul loro aspetto, ma soprattutto nessuno aveva il diritto di pulirle, tranne lui. Non saprei se tale dettaglio sia insignificante e irrilevante per la narrazione stessa oppure abbia qualche riferimento simbolico. Forse il rimando alle scarpe è collegato al timore di essere imbrogliato, di incontrare finti amici o colleghi bramosi del suo ruolo. Oppure la presenza delle scarpe implica un rimando più profondo al cammino, alle tracce, al tempo, alla Shoah…
Riprendendo la narrazione teatrale, si scopre che il professore ritorna a Vienna per ricoprire la cattedra di matematica, ma principalmente per la musica, la sua unica ragione di vita. Effettivamente l’intero spettacolo è accompagnato da vari frammenti musicali e si colgono riferimenti a Beethoven. Sceglie di vivere in centro, a dispetto del volere della moglie, in un appartamento che si affaccia sulla famosa piazza in cui nel marzo del 1938 Hitler stesso tenne un comizio, annunciando alla folla acclamante l’annessione dell’Austria al destino nazista della Germania. Le stesse urla esaltanti sentite a distanza di decenni dalla moglie, fino ad arrivare alla follia. La stessa piazza verso cui si lancerà dalla finestra del suo appartamento, come ultimo atto della sua vita.
Il secondo e il terzo atto introducono gli altri personaggi – presenze sofferenti che esprimono diverse prospettive sulla storia, presente e passata e presentano nodi irrisolti, individuali e sociali.
Personalmente, il secondo atto è la rappresentazione che più ho preferito. Viene introdotto lo zio Robert, il fratello del professore e il suo opposto. Filosofo, debole di salute, non si suicida, però si isola dal mondo, quindi in qualche modo smette altresì di vivere. Le nipoti avanzano la critica di uno che non vede e non sente nulla. In realtà, decide di non voler più sentire e vedere, di non sentirsi coinvolto. Più che consapevole della rovina della società, si arrende e non è più disposto a protestare, in quanto inutile. La voce del singolo non conta più nulla. Sarà anche vero, pero la voce collettiva, quella che riesce a farsi valere, che diventa realmente incisiva, sorge proprio dall’inascoltata voce singola. Quindi, “se lo Stato è una fogna, la società è marcia, cinica e ipocrita […] la vita è un unico dolore”, non arrendersi e protestare rimangono le soluzioni da attuare.
È difficile scindere la dimensione del reale da quella dell’immaginario, quando ciò che ti si presenta davanti agli occhi è un vivido quadro del nostro contesto. È uno spettacolo che affronta tante tematiche, alcune spinose come il suicidio, ma anche la malattia mentale, il rapporto tra uomo e cultura. Bernhard propone una spietata e cruda analisi dell’esistenza umana, però necessaria per risvegliarsi dal sogno della società equa e democratica, per tutti.