La nuova opera di Federica Panzera, “L’Orlando Abbandonato. Ovvero quando l’Ariosto rischiò di cadere nell’oblìo” (Edizioni La Carmelina), è un romanzo storico che prende le mosse dalla celebre miniserie televisiva degli anni ’70 intitolata “Orlando Furioso” di Edoardo Sanguineti e di Luca Ronconi.
Il libro verrà presentato mercoledì 17 luglio alle ore 20.15 negli spazi del Consorzio Factory Grisù in occasione della rassegna “Autori a Corte“.
Federica Panzera è nata in una piccola provincia di Lecce ed è laureata in Lettere classiche presso l’Università del Salento. Attualmente vive e lavora a Ferrara presso la casa editrice “La Carmelina” e come responsabile dell’ufficio stampa della rassegna “Autori a Corte-presentazioni con degustazione”. È inoltre responsabile dell’ufficio stampa per il “Centro Studi Opera Don Calabria-Città del Ragazzo.
Dice di sé «Ho l’odore della terra e degli ulivi nel sangue, che mi tengono con i piedi ben fermi nella realtà, quando il blu del mio mare mi porta altrove, al di là dell’orizzonte e al di sotto della superficie».
CAPITOLO PRIMO.
Era una bella mattina, quella del 14 Settembre del 1521, se ci si limitava ad osservare il cielo limpido su Ferrara e si indugiava sui marciapiedi dei vicoli cittadini non in ombra, a farsi riscaldare la schiena da un Sole che infondeva calore ed osava riempire di luce anche una città la cui parte vecchia sembrava una fortezza inespugnabile di ombre.
Di queste, la città poteva vantarne un intero serraglio -anche metaforicamente parlando- ma il Duca Alfonso I d’Este si sforzava di scacciarne il più possibile, cercando di perpetuare al gloria di suo padre Ercole I e imitandone il modo di fare politica, oltre a quel suo vezzo di dare sfoggio di magnificenza il più assiduamente possibile, pur incontrando evidenti difficoltà nel raccogliere consensi e dimostrando di non essere un “drago” nell’arte della diplomazia.
Meglio sapeva districarsi, quando lasciava parlare le sue bocche da fuoco o quando sguinzagliava il suo esercito magistralmente addestrato da coloro che meglio conoscevano l’arte della guerra e meglio sapevano muoversi sui terreni di battaglia.
In ogni caso, gli piaceva anche motivare personalmente – e con indubbio vigore- gli armati di cui disponeva, poiché vincere ogni battaglia senza troppo tergiversare, era la cosa che lo deliziava di più.
In molte altre situazioni decisamente incruente finì per abbandonare altri “campi di battaglia”, dove il favellare ed infiorare certi discorsi senza mai potersi abbandonare a dimostrazioni di forza a suon di espressioni minacciose e spade sfoderate, sarebbe stato decisamente frustrante e inappropriato per un combattente nato come lui.
In pratica, finì per affidare tale gravoso compito ad ambasciatori fidati, oltre che colti, capaci e persuasivi, pur meditando a lungo prima di arrivare ad una simile soluzione, dato che sua madre Eleonora d’Aragona gli aveva insegnato che un duca – o in generale un principe – doveva ponderare ogni scelta, valutando con attenzione i pro e i contro derivanti da essa, con la consapevolezza che il potere del quale era stato investito fosse effettivamente un fardello ma anche con la ragionevole certezza che le occasioni per aumentarlo e dare ancora maggiore lustro al proprio casato non sarebbero mai mancate, se vi fosse stata anche la capacità di coglierle al volo.
Col senno di poi, non ebbe mai a pentirsi delle sue scelte, così come non ebbe mai a pentirsi dei provetti artiglieri che schierò nel suo temuto esercito, laddove i modi e l’eloquenza dovevano obbligatoriamente cedere il passo alla capacità persuasiva squisitamente bellica espressa da un contingente dotato di pezzi d’artiglieria di nuova concezione.
Ebbe anche la fortuna che nessuno dei “purosangue” che scelse si fece trovare impreparato, quando si trattò di affrontare questioni delicate, dove il disequilibrio di forze era la regola e la probabilità che le sue intenzioni fossero equivocate era molto alta, specie se si fosse azzardato lui stesso ad illustrare sommariamente i propri intenti, rivolgendosi a coloro che già lo avevano accusato di essere stato insensibile.
Se per giustificare tali accuse i suoi detrattori avessero voluto discolparsi, iniziando a resocontare in merito al trattamento riservato da Alfonso ai fratelli Giulio e Ferrante – rei di aver tentato di impadronirsi del ducato a sue spese e quindi colpevoli di aver disobbedito alle disposizioni testamentarie del padre Ercole che aveva scelto come nuovo duca il figlio Alfonso per diritto di discendenza- egli avrebbe potuto ribattere che il carcere a vita, al quale aveva destinato i fratelli, era una pena meno severa della pena capitale.
Se poi costoro avessero continuato a manifestare il loro dissenso sfiorando la calunnia, egli avrebbe potuto elencare almeno due episodi nei quali i suoi avi si erano dimostrati sicuramente meno clementi di lui: il caso della decapitazione decisa da Niccolò III per il figlio Ugo – traditore – e la moglie Parisina – adultera – e quello della pena capitale, compresa la pubblica umiliazione, riservata da Alberto V al traditore Obizzo IV e alla congrega di abbietti congiuranti che avevano osato sfidare la sua autorità.
Che Alfonso fosse ambizioso almeno quanto il padre, era noto ben oltre i confini del Ducato. Arrivò persino ad ignorare, per convenienza, certi ospiti malaccorti di comprovato alto lignaggio che durante un banchetto nel Castello di San Michele lo accusarono velatamente di essere anche un tantino avido.
Non ci si poteva aspettare che fiele da coloro che erano suoi rivali più o meno degni, nello scacchiere delle Signorie italiche o di altri centri di potere nel XVI secolo.
Circondarsi degli uomini giusti per ogni tipo d’incarico divenne allora la sua priorità, assieme alla necessità ugualmente primaria che ogni Signore riconosciuto dai propri sudditi ha di garantire la discendenza del proprio casato.
L’Illustrissimo magistrato Antonio Costabili e lo smaliziato Benedetto Fantini erano due di questi suoi pochi “fedelissimi” ma anche il geniale Ludovico Ariosto -specie negli ultimi anni- si era dimostrato assai capace, seppur con quella sua istintiva ritrosia, quando si trattava di viaggiare ed essere costretto a lunghe assenze dall’amata Ferrara per ambascerie varie.
In verità, il buon Ludovico era già un messere fidatissimo, avendo prestato i suoi servigi al Cardinale Ippolito d’Este, che di Alfonso era l’arcigno fratello. Quando si trattò di seguirlo a Buda, in Ungheria, dopo diversi anni nei quali l’obbedienza dell’Ariosto non fu mai messa in discussione, il poeta e letterato fece di tutto per svincolarsi da tali obblighi, riscontrando quanto fosse più piacevole e fruttuoso il servire il Duca Alfonso I d’Este in loco del fratello.
A origine di tale “disamore” fra il cardinale e l’Ariosto, vi fu indubbiamente la critica lapidaria che Ippolito ebbe a fare, quando l’appassionato poeta gli dedicò la prima edizione de “Orlando Furioso”, ottenendo come riscontro un commento sprezzante la cui negatività frustrò a lungo Ludovico, al punto che rischiò di insinuarsi in lui l’assurda idea che il comporre versi la cui tematica non si potesse definire squisitamente sacra, equivaleva al farsi tentare subdolamente dal Demonio senza opporre resistenza, mentre un buon cristiano avrebbe reagito veementemente fino a scacciarlo, a suon di preghiere e penitenze.
Ma oltre a questo agire da subdoli eretici, ci si sarebbe accaniti nel celebrare la lingua volgare e la sua intrinseca impurità con quello stucchevole poetare, con la consapevolezza che i propri versi non potevano che avere un retrogusto giullaresco, inteso in senso spregiativo.
Ippolito arrivò a definire le rime ispirate di Ludovico “delle sciocchezze prive di senso” e l’Ariosto accusò terribilmente il colpo.
Già qualche anno prima si rese conto che Alfonso, pur non vantando anch’egli un carattere facile e pur dimostrando in più di un’occasione di essere un tantino schizzinoso, aveva riconosciuto la sua grandezza e già lo considerava alla stregua del suo migliore poeta di corte, seppure non trovasse nulla da eccepire sull’assiduità con la quale l’incontentabile ed inconsolabile fratello gravasse l’Ariosto di compiti di ambasceria, talvolta particolarmente delicati.
Tuttavia, quando si recò a Roma con Ludovico nel 1512 al fine di chiedere perdono al Papa Giulio II capace di scomunicarlo, capì quanto fosse sincero il suo attaccamento agli Estensi, già dimostrato a più riprese da suo padre. Quando il Papa li cacciò via senza pietà, rammentò che l’Ariosto aveva subito tale sorte già altre due volte -nelle precedenti ambasciate a Roma nel 1509 e nel 1510- ma anche quest’ultima volta apprezzò come non avesse perso la speranza in un ripensamento del pontefice. Notò quanto fosse ancora disposto a sacrificarsi per il suo duca, nonostante i rischi che entrambi corsero in tale circostanza a dir poco avventurosa.
Cinque anni dopo, l’Ariosto ebbe il privilegio di servirlo a tempo indeterminato. Il Cardinale Ippolito rinunciò ai suoi servigi, contenendo entro gli ideali argini suggeriti dal vivere civile, quel fiume torrentizio nel quale il proprio rancore si stava trasformando inesorabilmente, essendo alquanto orgoglioso e tendenzialmente vendicativo.
Ma qui l’Ariosto si dimostrò anche abile negoziatore, offrendo come contropartita alla cessazione della sua tormentata carica di segretario un valido sostituto più volenteroso e motivato, che di Ludovico era il valente fratello: Alessandro Ariosto.
In una delle sue satire, il poeta cercò di giustificare con i giusti toni e nel modo più comprensivo possibile il perché delle sue scelte e qui riuscì ad essere convincente, sia sul piano della diplomazia sia per le sue qualità sopraffine di poeta.
Ma tornando a quella mattina del 14 Settembre, sembrava un miracolo il poter contare su un astro capace di scaldare così tanto, anche quando ci si apprestava ad inoltrarsi nelle stagioni dove prima l’umidità e poi il grande freddo avrebbero condizionato la vita dei ferraresi più mattinieri, che già da diverse ore si dedicavano alle loro disparate attività all’interno della rassicurante cinta muraria erculea.
Le fatiche di quell’Ercole furono comunque meno probanti di quelle del semidio tanto caro all’Olimpo, considerando che l’Addizione erculea di Biagio Rossetti ebbe solo la sua sottoscritta legittimazione e il suo lampo di genio fu il capire di aver incontrato l’architetto giusto -capace di assecondare la sua ossessione per migliorare finalmente il sistema difensivo della città- al momento giusto, in cui i suoi forzieri erano stracolmi di monete, poiché le guerre da lui intraprese avevano avuto un esito positivo e la sua strategia di sposare figli e figlie con nobili confinanti si era rivelata vincente.
Quella mattina avrebbe potuto risultare gradevole persino per un bracciante male in arnese, costretto a lavori pesanti e vincolato ai capricci del tempo.
Azzarderei affermare – con ragionevole certezza – che nemmeno chi morì quella stessa mattina ebbe a rammaricarsi, non potendola di certo considerare una giornata infausta, visto che il cielo era tinto dello stesso azzurro che abbondava in certi quadri di Raffaello e l’orizzonte era tutt’altro che buio e spaventevole. Eppure una persona mansueta e pacifica, quindi al di sopra di ogni sospetto e meritevole di incontrare un nuovo giorno sereno e fruttuoso, trovò quella mattina terribilmente spiazzante.
Si trattava di una persona che non era solita lamentarsi o prendersela con gli altri e questo nemmeno quando le accadevano certi spiacevoli imprevisti o quando con piena legittimità avrebbe potuto piangere amaramente e lamentarsi per la vita difficile che, a seguito della atroce mancanza di un senso, era costretta ad affrontare.
Vista da lontano, sembrava una giovane nobildonna dal portamento regale e dalla rara bellezza ma immaginando di potersi avvicinare a lei senza essere notati, dopo aver contemplato i suoi splendidi occhi azzurri, avremmo notato che guardavano unicamente in avanti senza alcun battito di ciglia e senza alcun movimento.
Così avremmo finito per cedere alla tentazione di dedicarci a quel crudele passatempo che stuzzica subdolamente l’uomo e lo induce a cercare e poi a scovare più difetti possibili nel prossimo. Studiandola meglio, avremmo constatato che la giovane non muoveva mai il capo.
Si faceva guidare, seppur angosciata, da colui che sembrava più scortarla che accompagnarla con opportune accortezza e dedizione.
E infine saremmo arrivati all’amara conclusione che costei era cieca ma insieme al quel senso di pena per il tremendo castigo che le era toccato in sorte, saremmo stati sopraffatti dall’imbarazzo e vagamente disgustati per aver scoperto il verme capace di guastare quel frutto splendido e seducente. Avremmo provato una gran pena sapendo che ella non avrebbe mai potuto contemplare la propria bellezza e avremmo infine sentenziato che, se nessun misericordioso cristiano si fosse impietosito al punto di arrivare a decidere di prendersene amorevolmente cura, la sua vita sarebbe stata sicuramente assai breve, vista la quasi totale impossibilità di riuscire ad essere autosufficiente per vivere nel turbolento XVI secolo.
La giovane era stata prelevata dalla meravigliosa casa dove dimorava il già citato Antonio Costabili, quando non era impegnato altrove come ambasciatore.
Le ragioni di quello che si poteva configurare come un vero e proprio sequestro di persona, erano note a non più di quattro persone ed è mio scrupolo affermare preventivamente che l’arrivare a giustificarle non è qualcosa che può essere razionalmente riconducibile ad una interpretazione insolita della legge come andrebbe intesa nei tribunali ma qualcosa che trova ragione d’essere nell’amore incondizionato per l’arte e per coloro che ne sono i paladini più autorevoli, degni di una protezione maggiore.
Ecco allora che non posso che trovarmi concorde con coloro che – motivati da questa ammirazione per chi sa portare l’Uomo almeno un gradino più in alto, se parliamo di cultura ed emozioni – si sentono quasi obbligati a dover agire con grandi discrezione ed accortezza, se il fine ultimo per cui si arriva a comportarsi in modo simile non è malvagio e nemmeno dettato da biechi opportunismi ma nobilissimo.
Mi auguro che, chi si farà coinvolgere da questa storia, arrivi felicemente a vedere tale misfatto sotto una luce diversa e rimanga sorpreso da se stesso quando smetterà di puntare il dito contro i mandanti o rinuncerà a sputare sentenze nei confronti degli esecutori materiali di tale apparente scelleratezza.
Mi auguro che sorvoli sul fatto che, se fosse stato costretto a subire lo stesso meschino trattamento, non riuscirebbe ad essere così indulgente e remissivo nei confronti del proprio carnefice, trovando disumano e profondamente avvilente l’essere costretti a servire qualcuno senza nulla pretendere, seppur ritenendolo degno di essere soccorso ed aiutato.
Per ora basti sapere che la giovane non vedente si chiamava Dora del Fiorese e sua madre Aurora era stata la nutrice del padrone Antonio, ambasciatore di Alfonso I d’Este.