È sempre una sensazione piacevole quando si sente parlare una persona di sessantotto anni e si comprende quanto abbia una visione contemporanea (se non futuristica, per i canoni italiani) di un problema. Soprattutto del modo in cui si potrebbe tentare un salto che possa avviare quel processo necessario ad un cambiamento vero, non fatto di quei piccoli passi, che in Italia abbiamo l’abitudine di chiamare riforme.
E, istintivamente, abbiamo il pensiero che magari sarà un percorso che non porterà a risultati visibili (anche qui, come abbiamo abitudine in questo paese) eppure la scelta di Patrizio Bianchi a capo del comitato degli esperti per il Ministero dell’Istruzione, con il compito di formulare proposte per la scuola, è la migliore possibile, sia in termini di emergenza sanitaria, sia in termini di evoluzione futura.
Ci sono alcuni punti precisi che Bianchi ha individuato e spiegato nel recente intervento in Biblioteca Ariostea a Ferrara, sintetizzando i temi di un libro in uscita dal 22 ottobre, dal titolo “Nello Specchio della Scuola”. Prima di questo intervento abbiamo avuto la possibilità di confrontarci brevemente con lui.
Nell’affrontare questo percorso come capo del comitato del Ministero dell’Istruzione, quale sono state le difficoltà maggiori che ha incontrato?
Essenzialmente sono state tre. Sicuramente il confronto con le diverse esperienze. Con “scuola” parliamo di dieci milioni di persone coinvolte tra studenti e insegnanti e andando a includere le famiglie possiamo pensare che quasi metà della popolazione italiana ne sia in qualche modo parte: questo ci porta ad una enorme differenziazione delle esperienze, per cui diventa difficile parlare di scuola in generale.
Il secondo punto è che la struttura del ministero è fortemente centralizzata, mentre quelli che dovrebbero essere i partner, ovvero le regioni ed i comuni, sono enormemente frammentati e diversi tra loro. Questo ha senso nell’ambito del principio dell’autonomia scolastica, legge del 1997 ma realmente mai avviata e funzionale come la si era pensata.
Ma l’elemento di maggiore complicazione è stato il riuscire a fare ragionare tutti gli attori in campo partendo da due elementi distinti: un progetto di lunga durata e allo stesso tempo le necessità di una riapertura con l’inizio del nuovo anno scolastico. Il Covid ha messo in evidenza problemi che erano già presenti da tempo e nel lavoro che abbiamo svolto bisognava uscire dalla trappola di ragionare solamente nei termini della pandemia e dell’emergenza.
Un altro problema affrontato è il rapporto complicato tra una commissione di diciotto persone, estremamente eterogeneo e forte, e l’amministrazione centrale.
Non c’è un problema di pandemia nella scuola: il problema è che sono venti, trent’anni che non vi si investe abbastanza.
Una domanda da genitore: abbiamo avuto spesso la sensazione che nel momento della difficoltà sanitaria, rispetto al mondo del lavoro, la scuola fosse sacrificabile, che non fosse strettamente necessario tenerla aperta. È una sensazione corretta?
No, ma in altri termini: in questo paese la scuola è sempre stata percepita come marginale. Il problema è portare la scuola al centro dell’attenzione, perchè non c’è mai stata. Ci siamo accorti della scuola quando mancava perchè siamo un paese che non è abituato a pensarla al centro di tutto.
Cosa rimane del lavoro svolto nel comitato?
Da una parte non sono stato felice della scelta di non pubblicare il documento che avevamo preparato con il gruppo degli esperti. Un documento che verteva su un progetto di rilancio e di grande dibattito nazionale sulla scuola, un documento che non è stato utilizzato. Però devo dire che ho visto il piano di rilancio nazionale resilienza, quello con cui si andrà a discutere nell’Unione Europea (in tema di Recovery Fund, Ndr) e ho visto i punti che abbiamo trattato all’interno del documento, un lavoro che quindi non è perso ma verrà usato per la discussione a livello europeo. Non verrà purtroppo utilizzato il nostro lavoro per una discussione pubblica ma si sono mantenute le solite logiche di macchina centrale che pensa e decide, invece di coinvolgere la popolazione nel suo insieme.
Questi mesi sono stati una grande occasione per un ripensamento generale del mondo dell’istruzione.
Si, ma funzionerebbe solo in una ottica di scuola come elemento di solidarietà collettiva.
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Nella presentazione di Bianchi questo concetto diventa chiaro: già a partire dalla Costituzione la scuola è il mezzo attraverso il quale viene consentita la possibilità di dare eguali possibilità, diritti e doveri ad ogni cittadino. Una scuola che sappia essere inclusiva e moderna, immaginata con un acronimo, C.a.m.p.u.s che include tecnologia, coding, arte, musica, sport e vita pubblica. Che sia integrazione di tutte le attività che rappresentano i luoghi della società dei ragazzi, che ne includa i linguaggi e che sappia guardare alla competenze tecniche del futuro.
Una scuola che è luogo fisico, ripensata negli spazi, inclusiva, moderna e tesa a dare le possibilità ai nostri giovani. Il distacco con le settimane tese a pensare al distanziamento, ai banchi con le ruote e allo sfalsamento degli orari di ingresso è enorme e la domanda non è se sia giunto il momento per questo paese di iniziare una vera rivoluzione educativa.
La domanda è quando.
E quando, soprattutto, inizieremo ad usare le competenze a cui chiediamo supporto in comitati e commissioni, i cui echi nella vita reale, appaiono spesso solamente battiti di farfalla in una stanza che deve essere ricostruita da zero.
Patrizio Bianchi è professore ordinario di Economia applicata e titolare della Cattedra Unesco in Educazione, crescita ed eguaglianza presso l’Università di Ferrara, dove è stato Rettore fino al 2010. Assessore alla scuola, università, ricerca, formazione e lavoro della Regione Emilia-Romagna fino agli inizi del 2020, ha poi coordinato il Comitato degli esperti presso il ministero dell’Istruzione.