Ho ancora tanti errori da commettere
da “un segno di vita” – vasco brondi
Ti prego lasciameli fare
Adesso lasciati guardare
Nella luce artificiale
O nella luce naturale
Che bel rumore fanno le cose
Quanto stanno per finire
Resta con noi che si fa sera
Resta con noi è quasi primavera
Sul palco della Sala Estense di Ferrara ci sono due persone. Una è Vasco Brondi, nome e cognome di chi è stato per lunghi anni “Le Luci della Centrale Elettrica” e l’altro è Martino Gozzi, uno di cui abbiamo estesamente parlato, ed entrambi scrivono: il primo canzoni, il secondo libri.
È una sera particolare, l’ultima di sette sere in sette giorni, lo ripeterà spesso Vasco, tra le righe stanco, esausto: giorni di prove e presentazioni, di spostamenti tra le città per incontrare persone e presentare il nuovo disco nelle librerie, prima di partire con il tour. Sette presentazioni in sette giorni eppure “sono felice di essere qui, di persona, lontano dagli schermi che ci distanziano”.
Eppure: “quello che mi ha insegnato il punk, la mia adolescenza, la Ferrara dei centri sociali dove la scritta porta quello che ti aspetti di trovare ti spiegava esattamente che dovevi portarti la chitarra o la birra se volevi suonare o bere mi porta, da sempre, oggi ancora di più ad essere assolutamente sereno sul palco, totalmente a nudo, a mio agio nel mettermi a condividere quello che ho dentro. Ho capito che non vado su un palco per farmi dire sei bravo ma per essere me stesso e in caso di dubbio, la risposta è sempre dire la verità”.
Quello che restituisce, di persona e su disco, Vasco, da poche settimane quarantenne, è un senso di pacatezza e consapevolezza, calma e serenità. Intervistato da Martino si spende facilmente in lunghi discorsi che non sembrano riflessioni reali sulla domanda ricevuta ma veri e propri piccoli monologhi di chi oggi è uomo, adulto. Di chi è definitamente sé stesso, lontano da quel feroce poco più che ventenne che aveva sconvolto con le sue ruvidità la scena musicale italiana.
Quello che ho capito è che più espongo, più mi metto a nudo nelle canzoni, più provo gioia, tranquillità.
E, ripensandoci, un paio di giorni dopo la presentazione e il mattino dopo di una data zero andata sold out in pochi minuti a Officina Meca sta tutto qui, dentro al disco e dentro all’incontro della persona, Vasco Brondi.
“Un segno di vita”, sesto disco in carriera e secondo con il proprio nome e cognome è un disco fatto di istantanee, “fame e sete di vita e chitarre distorte”, di luci, incendi, di luoghi, viaggi immaginari o reali, incontri tra persone e si rivolge quasi sempre ad un tu, o parla in noi.
Non c’è ormai quasi nessun io, dentro all’anima di Vasco. Non c’è protagonismo, non c’è il sé, è tutto completamente opposto a quello che è il mondo moderno, fatto di giganteschi IO, di selfie, della propria immagine specchiata e diffusa e della centralità della propria opinione. Il cantante ferrarese oggi guarda al mondo (un pò come nel meraviglioso disco “Terra“) e si rivolge pienamente alla propria sfera di sensazioni “io vedo questo lavoro come il condividere quello che scopro”, dirà, sul palco.
Per questo album registra le canzoni (in parte) in una baita in montagna, si circonda di amici, coinvolge Nada per un riuscito duetto, si avvicina ad una forma canzone più pop rispetto al passato (“ma un pop maldestro, mi sono reso conto”) prosegue un percorso di espansione personale andando a trovare nuove immagini da lasciare impresse, quelle frasi-alla-vasco di cui lui stesso si diverte a leggere online, quei cosa significa un testo, impossibili spesso da decifrare nella totalità eppure così chiari nelle istantanee.
Perché anche questa volta, come sempre, le parole di Vasco Brondi sono come lampadine nel vuoto, frammenti chiarissimi di luce in una densa nebbia, particelle di questa persona, cantante, artista, uno che se vai a leggere sotto i commenti di certe canzoni leggi spesso “non so spiegare perché ma queste parole mi hanno davvero salvato la vita”. E anche in “Un segno di vita”, ci sono momenti abbaglianti, come in “Va dove ti esplode il cuore” che forse citando i Peanuts riporta un verso meraviglioso che potrebbe bastare a spiegarci come vivere ogni giorno:
“Un giorno ci toccherà morire, ma tutti gli altri giorni no”
Alla Sala Estense suonerà tre canzoni, dopo una mezz’ora di conversazione, “Incendio”, poi la canzone che dà il titolo al disco “Un segno di vita” e infine, dal passato “Le ragazze stanno bene” e poi sarà tutto finito, o pronto ad iniziare. Il tour, battezzato ieri sera con una prova generale gremita, caldissima e molto partecipata dai coetanei della sua città a Officina Meca, è quasi ovunque esaurito, e le date saranno in club di una certa dimensione.
Sono passati oltre quindici anni da quella demo che circolava in una città musicalmente più viva di oggi, dove nei locali si suonava, si sussurrava di musica, e nemmeno ci si accorgeva che stava accadendo qualcosa di grosso. Non per la città, ma per la musica italiana, destinata a restare, a raccontare qualcosa di noi, collettivamente. Oltre quindici anni di quelle sensazioni sospese per aria che la vita ci mette davanti e che ogni tanto un cantante, uno scrittore, un poeta, un pittore, sanno cogliere e appoggiare a terra e darci qualcosa in questa esistenza “di cui siamo figure piccolissime se guardiamo alla storia, se scopriamo all’ombra di un albero secolare quanto fragile è la nostra esistenza”, come ha detto Vasco Brondi sul palco, l’altra sera.
E si vede dallo spazio
Meccanismi
Il tuo sforzo solitario
Spaventerai sempre tutti
Con la tua voglia di vivere
Non riesci a smettere di piangere
Non riesci a smettere di ridere
Spaventerai sempre tutti
Con la tua voglia di vivere
Non riesci a smettere di correre
Non riesci a smettere di ridere
Spaventerai sempre tutti
Ma non me