Per me andare al Teatro Comunale è da sempre un rito. Il bel vestito nero, le scarpe un po’ eleganti, la camminata spedita sul listone, perché – fa parte del mio rito – parto sempre un pelo in ritardo ma arrivo spaccando il secondo. Adoro il foyer pieno di gente (oggi giustamente un po’ meno, per ovvie ragioni), i saluti, l’odore di legno, stoffa e… di teatro. La maschera che mi accompagna al posto mi fa sempre sentire un po’ importante; e poi mi prendo i miei 5 o 10 minuti, prima dell’inizio dello spettacolo, a luci accese, per osservare le persone. Qualcuno dal palco cerca di attirare l’attenzione di amici in platea, altri leggono il foglio di sala, altri ancora si guardano attorno proprio come me: siamo testimoni di un atto irripetibile perché nonostante i copioni, nonostante gli schemi e le coreografie, ogni spettacolo è un unicum, con le sue sbavature, le sue imperfezioni, la sua carica energetica. Quello di questa sera lo sarà senza dubbio, lo sappiamo tutti.
Stiamo per assistere finalmente all’incontro tra due universi danzanti. Finalmente, perché è un anno che gli appassionati della danza contemporanea attendono questo momento. HANDS DO NOT TOUCH YOUR PRECIOUS ME, A dialogue between the universes, un dialogo tra gli universi di Wim Vandekeybus, Olivier de Sagazan e Charo Calvo. Meglio, la connessione perfetta tra il coreografo-regista belga, fondatore della compagnia Ultima Vez, l’artista visivo congolese Olivier de Sagazan e la compositrice Charo Calvo. Una voce sola, coesa, precisa che dialoga con i tanti universi che popolano il pubblico.
Si spengono le luci, ora siamo parte del rito – e no, non è più il Mio Rito, è il rito di tutti noi, fortunati spettatori. Luce e ombra si separano presto in questo gioco pericoloso e intrigante. Noi in tensione, in balia della dicotomia proprio come i danzatori. Da un lato una figura celestiale, vestita di bianco; dall’altro l’istinto primordiale, l’argilla, una forma che perde la sua umanità – riconosco Olivier de Sagazan. E se stessimo sbagliando tutto? Non è forse colui che plasma il creatore? L’energia corre veloce da un lato all’altro del palco, spostando il focus sui due poli opposti – che così opposti non sono mai. Il bianco si sporca, l’argilla prende forma: il confine tra la pulsione e il suo controllo non è mai netto.
Una telecamera sposta la nostra attenzione su alcuni dettagli, nulla è lasciato al caso.
Ricevo continue risposte alle mie domande; mi soffermo su alcuni dettagli, gli abiti dei danzatori, gli oggetti, eppure ogni dubbio viene sciolto, ogni enigma risolto. Tutto ha un perché, una collocazione e uno scopo. Che sensazione meravigliosa per me – al di sopra della curiosità – sentirmi rispondere per le rime. Lo studio degli abiti, delle forme, dei gesti, dei giochi, è talmente perfetto da non lasciare spazio al turbamento, nonostante la continua tensione performativa.
Giochi infantili, giochi pericolosi decretano le sorti dei danzatori. Chi perde perderà sé stesso. Le anime passano pian piano sotto la coltre d’argilla; lasciano indietro i loro caratteri distintivi per scendere in questo strano abisso disumano. La pasta ricopre i volti, li uniforma, mentre i corpi si trasformano e abbandonano la loro grazia. I giochi diventano guerra perché il destino è sempre più feroce e scontato; ma la guerra è già persa. Tra forza e fragilità, vince la fragilità. La dicotomia scompare, ora i due poli si abbracciano costretti dall’argilla. Un totem, una scultura umana, una sensazione incastonata nella materia. La separazione è dolorosa: uno strappo divide le nostre difformità.
Le figure danzano per celebrare la rinascita, ma a noi sembra più un difficile distacco.
Ecco il paradosso della natura umana. Scegliamo ogni giorno di schierarci quando non c’è frattura, di dividere ciò che coesiste, di preferire, selezionare, optare senza avere opzioni. Evitare il conflitto non fa per noi, ma nemmeno risolverlo. Forse è solo il caso di accettare la nostra necessità di separare, sempre, di dividere tutto per schematizzare, pur sapendo che nulla è bianco o nero. Siamo una platea di sfumature, stiamo guardando un campione dei nostri colori, del tutto personali.
Una cena: bianco e nero, vita vecchia e nuova vita, luce e ombra ora sono a tavola assieme. Buio.
Applausi, e ancora applausi. Applausi sinceri.
Mi prendo un attimo per riguardare i visi che avevo scelto prima dello spettacolo. Gli occhi sbarrati per riabituarsi alla luce nascondono sempre un velo di tristezza; quando lo spettacolo finisce torniamo ad essere persone fragili, in cerca di uno stimolo. Riportiamo a casa le nostre dicotomie, ma con la testa piena di bellezza.
Riparte alla grande il Teatro Comunale, e ogni sera saprà definire un nuovo rito collettivo: siatene i testimoni.
1 commento
Grazie Clelia, la tua descrizione del spettacolo del mio grande e preferito coreografo è spettacolare! Mi è sembrato di vederlo … davvero!
Purtroppo ero impegnata per un appuntamento davvero imperdibile, i miei 40 anni!
Grazie grazie grazie!