Non entreremo alla mostra. Ospitata per il quarto anno consecutivo al Pac di Ferrara, la mostra World Press Photo è un appuntamento che apre una emozionante e spesso dolorosa finestra sulla realtà del mondo che ci circonda, esponendo le foto selezionate dalla fondazione: i migliori scatti di fotogiornalismo al mondo. Queste foto vanno viste, vissute, devono incontrare le palpebre del visitatore: alcuni esempi saranno presenti lungo il testo, il resto sta a chi legge, al coraggio di entrare.
Quello che faremo nei prossimi minuti è incontrare Samira Damato, Exibition and curator manager della mostra, per discutere di fotografia, attualità e di tutto quello che circonda il fotogiornalismo. Il consiglio è di aprirsi alla possibilità di incontrare questa testimonianza del mondo: sorridere, sorprendersi, emozionarsi o persino piangere. Lo facciamo spesso per un film o un libro, questa invece è la nostra realtà.
Durante un incontro del Festival di Internazionale è stato fatto ascoltare un episodio di un podcast in cui una dottoressa spiegava di essere rimasta sconvolta dagli esiti di una sparatoria di massa. Mi ha colpito un suo pensiero: raccontava di ciò che hanno visto i suoi occhi, i corpi di giovani bambini martoriati dalle pallottole e di come queste immagini, per questione di sensibilità, non vengano mai mostrate pubblicamente. Di come, forse, arrivare a farlo potrebbe essere la chiave per spostare il dibattito sul possesso delle armi negli Stati Uniti. Cosa ne pensi?
Beh, io credo che la fotografia abbia un valore molto importante. Può cambiare in maniera istintiva il modo di vedere le cose, in un modo veramente umano e veloce. Ci consente di empatizzare. Credo che l’organizzazione World Press Photo e il fotogiornalismo in generale abbiano il dovere e l’autorità di inseguire lo scopo di raccontare e di essere allo stesso tempo coscienti del potere, al di là dei numeri e delle statistiche, che possono avere.
Penso anche che vi siano vincitori, come quest’anno ad esempio, con la foto di John Moore che ferma l’istante in cui un bambino, di tre anni, viene momentaneamente separato dalla propria madre al confine, ecco questa credo sia una foto che possa avere un impatto immediato su gran parte delle persone; noi sappiamo subito cosa sta succedendo e l’impatto che questo può generare nella vita di quel bambino.
Pensando alla World Press Photo Foundation, esiste un limite per le foto da selezionare?
Prima di tutto: le foto sono selezionate da una giuria indipendente, composta da un gruppo eterogeneo di professionisti come fotografi e giornalisti, che scelgono insieme i candidati e poi i vincitori delle categorie. Per cui non vi è un codice, una linea tracciata, noi non restringiamo in nessun modo il campo alle persone che scelgono. L’impegno, da parte nostra è garantire che le foto selezionate siano verificate ed accurate, andando a controllare in maniera trasparente quale storia c’è dietro ad esse e che siano tutte reali.
Negli ultimi cinque o dieci anni la fotografia ha vissuto numerosi cambiamenti, grazie alle nuove tecnologie e alla possibilità di utilizzare in maniera sempre più proficua gli smartphone. Probabilmente oggi possiamo fotografare molte più cose di un tempo: come questo impatta sulle vostre esposizioni e nel mondo della fotografia in generale?
Penso che sia una domanda molto complicata. Sicuramente credo che il ruolo del giornalismo fotografico stia cambiando e stia diventando più importante. Questo perché siamo molto connessi alle fotografie, sono importanti nella nostra quotidianità. L’associazione World Press Photo è particolarmente attenta a controllare che non vi siano manipolazioni, che la veridicità sia garantita, anche perché molte immagini sono fonte diretta per il mondo dell’informazione. Credo che una parte importante di questa questione sia non solo sull’importanza o sul ruolo di queste fotografie ma anche in che modo possiamo iniziare a discutere di accuratezza o veridicità su queste immagini.
Quanto può essere politica una foto?
World Press Photo, in sé, è una organizzazione senza indirizzo politico.
Eppure, anche solo scegliere una determinata foto, non rivela un pensiero?
Vedi, l’associazione non ha nessun potere di scelta. Quello che tu puoi vedere nelle esposizioni è il risultato del lavoro di una giuria indipendente che sceglie opere che hanno un valore globale. Per esempio, quest’anno, il tema delle migrazioni può essere visto lungo tutta la mostra, non solo in alcune opere. È trasversale a luoghi diversi. Questo può essere visto come il valore globale di un tema fondamentale, trasversale a tutti gli uomini e non una scelta politica. Qualcosa che riguarda il nostro tempo, ecco.
In generale credo che l’esposizione sia così ampia, coinvolga così tante storie, persone e luoghi che quello che puoi vedere tu, come spettatore, sono linee di pensiero che coprono molteplici argomenti cruciali nell’ultimo anno, senza un indirizzo predeterminato.
Pensi che riguardare oggi una foto di una mostra di dieci anni fa restituisca sensazioni diverse? Che a posteriori in alcuni casi vi possa essere un giudizio opposto?
È un tema piuttosto interessante. Come saprai, molte delle nostre opere vincitrici sono poi diventate immagini iconiche, come ad esempio “Tank Man in Tienanmen” forse la più famosa fotografia al mondo. Immagini, come quella rappresentano un intero momento storico. Questo, di nuovo, ci racconta il valore di una immagine e ci permette di dire che World Press Photo consente di avere una visione condivisa della storia. Non so descrivere il modo in cui cambiamo prospettiva nel guardare indietro ad una immagine passata, ma mi sento di dire che ogni anno consente di vedere come cambia il modo in cui comunichiamo. Ancora, ripensando al nostro vincitore di quest’anno: trovo che sia una fotografia molto rispettosa e piena di sensibilità e ci mostra il modo in cui siamo, come esseri umani.
Vorrei chiederti cosa vedi durante le mostre guidate delle esibizioni. Tu hai una prospettiva differente: le persone guardano le foto, tu probabilmente osservi le persone durante la loro visita. Che sensazione ti arriva?
Dipende da pubblico e pubblico. Vedo spesso molto interesse, molto desiderio. Vedo un pubblico molto giovane e allo stesso tempo una certa diversità di persone, di ogni età ed è particolare comprendere come questa esposizione possa influire sulle persone. Vedo che le persone vivono delle montagne russe emozionali: piangono, ridono; vedo dei nonni che accompagnano i loro nipoti e instaurano delle lunghe conversazioni con loro. Questa è la cosa più bella: vedere una conversazione che nasce.
Anche per te la fotografia, l’immagine è il linguaggio più universale? Poiché tutti vedono queste foto e provano qualcosa, in maniera assolutamente indipendente dal linguaggio che parlano, dal genere, dalle idee personali.
Esattamente: le immagini hanno un impatto sulle persone. È una cosa bellissima. A volte un’immagine ti racconta una storia, a volta ti stimola la curiosità, ti stimola a leggere di più, a ricercare fonti indipendenti e questo è un modo splendido per raccontare al mondo quello che più è importante.
Cosa ne pensi tu e cosa ne pensa World Press Photo dei video? Siamo nell’epoca, verosimilmente, della transizione dalle immagini ai video, gran parte del traffico online è dedicato ai video. C’è una sezione video di World Press Photo?
Si, esiste una sezione dedicata ai video. L’anno prossimo saranno dieci anni dalla prima edizione ed è una sezione che continuiamo ad espandere e rinforzare. È disponibile, ad esempio, nell’esposizione di Roma e si sposterà a Torino presto. Nell’associazione abbiamo tre tipi di video: il formato più lungo, che supera i quaranta minuti, il formato più corto, fino ai 15 minuti e una sezione dedicata alle storie interattive, che è particolarmente legata a forme innovative di racconto visuale. Questo perché vogliamo essere protagonisti nel cambiamento in cui si raccontano le storie.
Volevo chiudere il cerchio con un tema recentemente toccato in un’altra intervista, al fotoreporter Mirko Orlando: lui nel suo libro racconta le migrazioni tramite una miscela di fotografie e disegni, in particolare scegliendo il media più adatto al contesto. C’è un momento per abbassare la macchina fotografica, mi ha detto, che diventa un ostacolo alla narrazione. Cosa ne pensi di questo tema?
La risposta è sicuramente soggettiva. Sicuramente ci sono delle linee per cui un soggetto è troppo forte, dall’altro lato la World Press Photo dedica il suo impegno alla celebrazione del fotogiornalismo. Nel caso dell’autore di cui parli sicuramente lui ha trovato questa idea di comunicazione ed è il modo giusto per lui. Ma ragionando su scala globale, il fotogiornalismo è solo la finestra che apre lo spazio per discussioni più ampie.
Quindi è importante cercare di seguire sempre l’idea di un racconto e di una narrazione?
Non è nemmeno il tema se sia importante o meno. Pensa ad esempio a Mohammed Badran, fotogiornalista siriano. Quello che è un valore aggiunto del suo lavoro è quello di creare una testimonianza vivente, di creare foto, evidenze visive di quello che succede: anche questo è un ruolo importante del fotogiornalismo.
Questo si connette alla prima domanda dell’intervista: dovrà arrivare un giorno in cui dovremo pubblicare quelle foto di bambini uccisi da armi da fuoco, per avere un mondo migliore.
Si, forse ci sarà bisogno di immagini per iniziare questo dibattito.
MORE INFO:
Mostra World Press Photo al Pac, Ferrara (dal 4 ottobre al 3 novembre)
10b Photography
World Press Photo
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