

Non è così frequente avere un release party di un disco a Ferrara, ovvero l’occasione del primo concerto per il lancio di un nuovo album. Ed è vero che a Officina Meca Diego Franchini, nome d’arte Banadisa, gioca in casa, ma la sensazione è che ci sia un futuro luminoso per questo progetto che, come ci ha spiegato in questa intervista, vuole fare qualcosa in più rispetto all’esordio, continuando sì guardare indietro ma facendo un salto in avanti.

Ascoltando il disco mi è venuto naturale partire da un accostamento forse un pò strano ma che mi sembra calzante. In queste settimane c’è stato il successo inaspettato del film Le città di pianura e il tuo disco che si intitola Inumana Canicola Padana sembra che racconti quelle stesse terre di pianura, quella normalità e tradizione.
Bellissimo quel film, credo che sia diventato subito uno miei dieci film preferiti di sempre! In effetti, se parliamo di percorso artistico, è un filone in cui provo a inserirmi anche io, parlo della volontà di riscoprire le peculiarità, le tradizioni, le radici dei territori. Sono usciti molti album in questo senso, e non solo a livello italiano: Rosalía ad esempio è ormai una vera popstar di livello mondiale e nasce con questa identità forte, nasce dal flamenco e nell’immagine e nel suo suono porta queste sue radici, questa tradizione come proprio fattore artistico che la contraddistingue.
Nel mio piccolo il processo è quello: cominci a guardarti più come persona, come identità musicale, cercando di mettere un punto dopo un lungo percorso che ha attraversato tanti generi – dal rock al punk all’hardcore – per arrivare a guardarmi dentro e capire quale fosse la mia matrice personale. Io ho sempre vissuto in campagna, vengo dall’alto polesine, ci sono rimasto fino ai miei vent’anni prima di trasferirmi a Ferrara: questo legame con il territorio fa parte di me, e inevitabilmente quando ho cominciato a portare questo dentro alla mia musica si sono sbloccate strade artistiche su cui lavorare. Tra queste, una attenzione maggiore verso la lingua, anzi più lingue: nel disco ci sono italiano e dialetto e le collaborazioni in altre lingue, come l’inglese e lo spagnolo, è un disco con identità forti dentro alle canzoni e questa radice territoriale, polesana, che si mischia con il resto.

Ecco, il disco e il suo suono: è un disco particolare, coraggioso. Se dovessi raccontarlo, come suona questo album? Io, direi una cumbia padana, se mi passi il termine.
Ultimamente ho sviluppato un sentimento di amore e non voglio dire odio, ma quasi, sulla parola cumbia: il mio primo disco è stato molto incentrato, a livello di comunicazione, su questa parola. La cumbia è stata per me un ascolto fondamentale, mi ha fatto scoprire tutto un movimento di folklore sudamericano, l’utilizzo delle percussioni, gli strumenti tradizionali, il canto, tutti elementi che mi hanno suscitato quella curiosità che mi ha portato di fatto ad approfondire quello che c’era nei miei territori. Allo stesso tempo sento però la necessità di prendere una distanza stilistica rispetto alla cumbia, perché se è vero che è un genere molto camaleontico, che ha travalicato stati e continenti, sento di voler uscire da quella etichetta, è stato un punto di partenza per andare in altre direzioni. Questo album lo definirei un progetto di elettronica che si contamina con il folklore, un folklore che a volte è anche immaginario, un future/folk, potremmo definirlo, che gioca su questa linea sottilissima.
A proposito dell’idea di un progetto più ampio: ci sono diverse collaborazioni interessanti in questo disco.
Assolutamente: la principale, per tutto il disco, è quella con Fed Nance (Federico Cavallini) che è stato anche il produttore di quasi tutte le tracce: è con lui che porto avanti il progetto, l’idea stessa di ricerca sonora. Così come è fondativa la collaborazione con Marcello Martucci, che mi segue anche dal vivo e cura tutta la parte di percussioni. È un grandissimo esperto di percussioni tradizionali, in particolare africane: il disco nasce in studio sostanzialmente con queste due persone. Un’altra collaborazione che mi porto dietro dal primo album è quello con Clara Andrés, che ha cantato e scritto un brano molto bello: le ho chiesto di guardare a quei canti sofferenti della tradizione del flamenco, si è ispirata ad un classico ed è riuscita a scrivere quella splendida traccia che è No tengo lugar y no tengo paisaje.
Poi c’è il ritorno del Coro delle Porporine di Mondana (che, se ve lo siete persi, a maggio è stato anche protagonista di un festival in città): è una collaborazione musicale, umana e sociale, è un rapporto che travalica la questione musicale e loro, parlando proprio di canti e di tradizione, sono un modo di cantare, di stare sul palco, sono il mio gancio alla tradizione, guardo con ammirazione a quello che fanno. Ci sono anche i veronesi C+C: Maxigroos, già grandi sperimentatori, anche loro hanno un approccio sperimentale. Il nostro è stato un rapporto che si è sviluppato in maniera fantastica, insieme abbiamo lavorato a diversi brani per la produzione. Infine c’è il brano con Anna Bassy, una cantante che potrei definire di genere, neo soul, ha una voce incredibile. Tutto il disco ha momenti onirici di vuoto e sospensione e momenti molto più oscuri e percussivi, con questa forte alternanza tra psichedelia e intensità.
La copertina è particolare: c’è sicuramente il tuo territorio, c’è il folklore, tutto giocato su bianchi e neri.
La cover si lega al disco come progetto intero, che prevede anche un lato estetico e che comprende anche le foto stampa. Abbiamo cercato di far sì che le foto sembrassero uscite dai vecchi archivi dell’Italia dopo la grande guerra: case assolate, uomini di campagna con il fazzoletto, i braccianti. Volevo ricercare questo senso dell’arcaico. Avevo sempre immaginato la copertina con una foto tra quelle che abbiamo realizzato, poi ho incontrato per caso ad una mostra Keita Nakasone, un artista italo-giapponese che lavora a Brescia e realizza xilografie intagliate a mano. Nei suoi lavori c’era questo impatto di bianco e nero molto forte, qualcosa di grezzo, ruvido, primordiale ed è venuto naturale chiedergli di realizzare la cover del disco.

L’ultima domanda ci porta direttamente al release party di domani, il tuo primo live qui a Ferrara, a Officina Meca, che darà poi il via al tour. Ascoltandolo mi è parso un disco complesso da portare dal vivo.
È vero, è una sfida pensare di suonare il disco dal vivo, anche perché è un lavoro che nasce in studio con diverse collaborazioni, insomma non è come in altri casi un disco registrato in sala studio. Quando porti dal vivo questa cosa significa scindere il progetto che realizzi in studio e quello che suoni sul palco: abbiamo pensato di puntare molto sulle percussioni live, saremo una formazione a tre con Marcello Martucci, che si occuperà di tutte le percussioni a mano, e Francesco Sicchieri con le percussioni a bacchetta. Per la parte di voce e elettronica ci sarò ovviamente io, con un impatto sonoro, credo, molto potente.

Informazioni
Il release party del disco di Banadisa sarà sabato 22 novembre a Officina Meca (viale Cavour 189, Ferrara). A questo link le informazioni sul progetto che esce per l’etichetta La Tempesta.


Classe 85, vive a Ferrara da vent’anni. Secondo il profilo ufficiale è Infermiere, nel contempo si occupa da anni di giornalismo con l’idea di cercare di raccontare il mondo da una angolazione sempre nuova, con spirito critico ma rivolto al meglio, al domani e al possibile. Ha scritto un romanzo, si chiama “Sfumature” e si occupa di musica con una newsletter settimanale, live report e altro.Qui su Filo, articolo dopo articolo tenta di costruire un mondo più informato, consapevole ed ottimista o, almeno, aderente alla realtà.