

Può essere che sia solo una casualità ma non me la sento di ignorare un fatto, prima di buttarmi a capofitto nel racconto dell’esposizione di Banksy a Palazzo dei Diamanti.
Il libro che mi ha accompagnato durante questi mesi (in cui il mondo era fermo, così come la mostra, fermata nella sua inaugurazione dal lockdown) è stato “Il Cardellino” di Donna Tartt. Un romanzo del 2013 (premio Pulitzer 2014) che racconta lungo quasi novecento pagine la storia di Theo, nell’incipit tredicenne e vittima di un attentato terroristico al Metropolitan Museum di New York, da cui sfugge miracolosamente sano e con in mano un quadro: “Il Cardellino” per l’appunto.
Il possesso del quadro, conseguenza e innesto propulsivo di una serie di eventi, è il contrappeso morale che si accompagna alla crescita del ragazzo, che vive questo senso di furto e colpa pur senza riuscire a separarsene e dilazionando quel momento in cui sarà necessario ammettere di avere preso qualcosa di non proprio per un tempo così lungo da diventare insopportabile.
Entrare con queste novecento pagine nella testa a Palazzo Diamanti è, inevitabilmente, entrare con un fardello già predisposto anni fa dalla visione in un follemente pieno Cinema Boldini di “Banksy Does New York” documentario che racconta un mese di “residenza artistica non autorizzata” dell’artista a New York.
Il concetto di base è: cosa stiamo guardando?
Non possiamo fare nulla per cambiare il mondo fino a quando il capitalismo non si sgretolerà. Nel frattempo dovremmo tutti andare a fare shopping per consolarci.
[Banksy]

Quando osserviamo un quadro all’interno di un museo osserviamo un’opera d’arte. Quando siamo in una mostra espositiva che ci mostra oggetti e ricordi, come in quella Spazio 2019 che raccontava la corsa alla Luna, cerchiamo di connetterci a qualcosa di reale ma non vissuto a livello personale.
Quando siamo di fronte, in gran parte, a serigrafie di opere che sono state realizzate in luoghi specifici, per momenti specifici, con un intento specifico, cosa stiamo guardando?
Osserviamo riproduzioni, in qualche caso oggetti e soprattutto leggiamo didascalie, spiegazioni, racconti, interpretazioni.
Osserviamo una messa in scena asettica: un unico colore scuro e uniforme a nascondere Palazzo Diamanti, palcoscenico silenzioso delle invenzioni dell’artista anonimo di Bristol.

Ammiriamo il genio creativo, i giochi di parole, le iconografie pop rielaborate e rese ironiche, sprezzanti, il racconto del rapporto con la legge, con il mercato, i messaggi legati alle comunità e ai movimenti sociali.
Ma poi chiudiamo gli occhi e ripensiamo a quel documentario e a quelle infinite occasioni in cui l’artista ha chiesto presenza fisica e partecipazione collettiva ad un evento e pensiamo che non stiamo vivendo nulla, ma solo osservando alcune opere private e molte riproduzioni e che questo ha una valenza culturale (Banksy è cultura di questi decenni) ma tradisce l’intenzione dell’arte stessa, perché fatica a veicolarne il messaggio.
Quando vediamo parti di opere realizzate in un piccolo hotel ristrutturato di Betlemme, con l’unica vista possibile su quel muro che divide Gerusalemme, siamo così diversi da quei momenti in cui vediamo orrori nei telegiornali e li commentiamo cenando, nelle nostre case sicure, con un distacco spiegabile solo con meccanismi di difesa istintivi custoditi dentro al nostro DNA?
Nelle sue creazioni Banksy invita, fondamentalmente al cambiamento personale, alla revisione dei modelli che conosciamo e diamo per scontati, veicola messaggi che parlano di violenza integrandoli con l’innocenza dell’infanzia e prova a muovere leve morali che mediamente scompaiono o si offuscano o si spengono all’interno della quotidianità delle nostre vite.

C’è anche un ultimo dettaglio da tenere in considerazione: quella riproduzione del quadro regalato nei primi giorni di Maggio agli operatori sanitari di un ospedale, eroi di questi mesi, per ovvi motivi cronologici aggiunto poco prima della nuova data di apertura, con sicuro rispetto e contemporaneamente con quasi sfregio filosofico: un lavoro ancora fresco, non metabolizzato, che non è più retrospettiva ma contemporaneità e che vive in un ospedale di Southampton, non in una esibizione, a ringraziamento di quelli che ostinatamente definiamo eroi di questo tempo.

Così ci si ritrova a pensare alle vicende di Theo ne “Il cardellino” e di un quadro sempre fuori scena (nascosto, perduto, venduto, rubato) eppure sempre nella testa del protagonista, come fosse una bilancia morale della propria identità e legame fisico verso quel giorno in cui un museo è diventato muri distrutti, sangue che si espande e vite smarrite.
E ci si guarda attorno a queste opere con l’emozione di potere tornare dentro ad una mostra dopo mesi in cui la cultura è stata spenta, ma senza poter provare le vere sensazioni che cerchiamo: questo è vedere, non è esserci e Banksy richiede di esserci.
Ferisce questa mostra.
Andiamoci, perchè Palazzo Diamanti è un organo vivente della nostra città e perchè ogni essere umano ha bisogno di farsi sorprendere e di diventare un pò migliore e questo non può prescindere dall’arte in ogni sua forma.
Ma è una concessione, una sospensione del giudizio, una tenda tirata dietro all’inevitabile sensazione di avere visto qualcosa che manca dell’anima della strada e di quell’istante per cui era nata e che giace, senza battito corporeo, ad uso e consumo del “doverci andare” così diverso dal “dover essere diversi” che ci sembra il messaggio conclusivo, sintetico e deflagrante che Banksy ci vuole inviare.
Alcune persone diventano poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore. Alcune diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere.
[Banksy]
MORE INFO:
Un artista chiamato Banksy è in mostra dal 30 maggio al 27 settembre 2020, tutti i giorni dalle 11.00 alle 21.00.
Classe 85, vive a Ferrara da vent’anni. Secondo il profilo ufficiale è Infermiere, nel contempo si occupa da anni di giornalismo con l’idea di cercare di raccontare il mondo da una angolazione sempre nuova, con spirito critico ma rivolto al meglio, al domani e al possibile. Ha scritto un romanzo, si chiama “Sfumature” e si occupa di musica con una newsletter settimanale, live report e altro.Qui su Filo, articolo dopo articolo tenta di costruire un mondo più informato, consapevole ed ottimista o, almeno, aderente alla realtà.

[…] Un ospite, infine, annunciato in questi giorni: Hell Sandro, artista di Street Art che si racconterà e che affronterà il tema dell’arte di strada e di cosa voglia dire includerla in un museo (noi su Banksy abbiamo scritto questo). […]