“Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all’improvviso il sangue di un delitto”
(Richard Burton, parlando del rugby)
CRACK. Come un ramo secco che si spezza. Poi un brivido che dalla caviglia mi attraversa fino a fermarsi in gola. Succede quando sento parlare di rugby.
Un passo indietro: maggio 2010. Ho cercato tante spiegazioni, dopo, a come io mi sia potuta ritrovare in calzoncini e scarpe tacchettate su un campo di rugby. La ragione più tristemente plausibile è che stavo attraversando una prima crisi d’età. Mi inquietava quel cambio di decina sempre più inesorabilmente vicino, avevo bisogno di qualcosa che mi facesse rivivere l’ebbrezza della gioventù, che lasciasse di stucco gli amici e che facesse incazzare a morte mia madre.
Un cambio look? Un tatuaggetto? Roba da pivelli, io volevo l’adrenalina. Le mie ricerche sono finite quando un’amica mi ha lanciato un invito: “questa sera ho allenamento, vieni a provare? Gioco a rugby!” E quella è stata la prima volta che mi sono allenata con le Velenose nei campi del CUS.
All’epoca era una squadra giovane, era passato solo un anno da quando a Luca Rizzati, già noto nel panorama del rugby ferrarese e Carlo Ozzarini, veniva l’idea di allenare una squadra femminile sui campi del CUS. Da lì i passaparola tra conoscenti, amiche, parenti. Quando sono arrivata io la squadra ancora stava navigando a vista nel panorama del rugby femminile anche se la mia percezione è stata da subito quella di entrare a far parte di un gruppo solido e unito, coeso sotto la guida di Luca, per tutti Veleno (la dice lunga su come fosse il suo stile in campo) da cui il nome della squadra e della capitana Silvia Telloli, la Tella.
In breve sono entrata nella vita della squadra, vita che andava oltre il campo erboso, passando dagli spogliatoi spingendosi oltre. In una sera passavamo dalle uniformi sintetiche intrise di fango, calzettoni oltre il ginocchio e paradenti, alla piastra per capelli, una spruzzata di profumo e un filo di rossetto; in mezzo c’era tutto: la fatica, il sudore, le lacrime, le risate, i rimproveri, gli scherzi e le chiacchiere. Ci sentivamo padrone di un’identità segreta: normali ragazze capaci di trasformarsi in feroci rugbiste.
Ecco, in realtà non ho proprio il ricordo di me feroce rugbista: accantonata fin da subito l’impresa di imparare la vastità di regole proprie di questo sport, mi dicevo soddisfatta quando riuscivo ad acchiappare la palla ovale, avanzare di qualche metro, più spesso centimetri, e trovare al più presto una compagna a cui passarla. Quando lo scontro con l’avversaria si faceva inevitabile chiudevo gli occhi e pregavo di non sentire troppo male.
Ho pagato a caro prezzo questa insicurezza e, sorte beffarda, fatale mi è stato lo scontro con una giocatrice poco convinta quanto me. Neanche la gloria di essere massacrata da duecento chili di puro talento in un match decisivo. Niente affatto: allenamento quasi finito, giochino stupido, placcaggio incerto e CRACK. E per crack intendo tibia, perone e malleolo. Fine di una carriera poco fulminante ma decisamente fulminea.
Non tanto per l’infausto anniversario delle mie ossa spezzate quanto per il più gioioso decimo compleanno delle Velenose, mi sono ritrovata sui campi del CUS, questa volta in abiti civili, per vedere cosa è successo in questi anni e come è cambiata quella giovane squadra.
Ad aspettarmi c’è ancora lei, il pilone nonché pilastro delle Velenose, la Tella. Mi aspettavo di trovarla in campo, ma mi racconta subito che un brutto infortunio l’ha costretta a ritirarsi. “Non è stato facile, non riuscivo più a guardare le ragazze giocare, mi sembrava di odiare tutte. Poi ho metabolizzato, la botta iniziale è passata e mi sono ritagliata un ruolo nella squadra pur non scendendo in campo”. Silvia è diventata la team manager e coordina la squadra insieme a Manjola Klondrekaj, altra storica velenosa e da coordinare ne hanno: il gruppo ferrarese del CUS Ferrare si è fuso con il Borsari Rugby Badia, unendo le giocatrici sotto il nome di FEDIA. A livello pratico questo implica che per due dei tre allenamenti settimanali le ragazze si spostano tra il campo ferrarese e quello in terra veneta. Il campionato ha regalato grandi soddisfazioni, la squadra si è guadagnata riconoscimenti prestigiosi e in questi anni sono arrivate anche le prime convocazioni per la nazionale.
Sul campo le ragazze si stanno allenando, riconosco in lontananza alcune storiche giocatrici con le quali ho diviso il campo, come Giada Ozzarini e Giulia Castaldini, mentre io e Silvia continuiamo a parlare.
Come sono cambiate le Velenose in questi dieci anni?
Quando abbiamo iniziato c’era l’incoscienza della novità, molte di noi venivano da altri sport, io ed altre ad esempio dalla pallamano, siamo venute a provare senza avere idea di cosa ci aspettava esattamente. Le ragazze che vengono adesso sanno cosa vengono a fare, c’è meno incoscienza e più consapevolezza e serietà; per noi “pioniere” era tutto una scoperta e una conquista, questo effetto sorpresa manca alle giocatrici di adesso.
Come vengono viste oggi le giocatrici di rugby?
È aumentata la visibilità di questo sport e che sia giocato anche da donne è ormai una realtà storica consolidata, non siamo più un fenomeno raro e isolato.
E il rapporto con i colleghi maschi?
Il maschilismo, le battute, gli atteggiamenti ostili, quelli ci sono sempre, inutile negarlo, anche se meno con il passare degli anni. Con i rugbisti del CUS in particolare abbiamo un rapporto di amorevole invidia: ci punzecchiamo, litighiamo per chi deve giocare nel campo migliore, le dinamiche sono un po’ quelle fra fratelli e sorelle.
C’è differenza tra una squadra maschile e una femminile?
Una squadra è una squadra, che sia fatta di uomini o di donne, alla base ci sono le regole, altrimenti sarebbe solo un gruppo di amici che si trova per una partitella e un aperitivo; venire qui, richiede impegno e sacrificio. Bisogna pensare alla squadra come a una famiglia: se un genitore chiede di portare le borse della spesa si fa, uno spogliatoio funziona uguale, se l’allenatore o il capitano chiedono un sacrificio la squadra risponde. Non è un’esagerazione il paragone squadra – famiglia per la natura stessa di questo sport e i rapporti che crea: ti rende intima con le compagne, probabilmente per il contatto fisico obbligato dalle dinamiche delle azioni; si esce dagli schemi sociali, si rompono i tempi e i modi consueti, la confidenza si raggiunge a una velocità diversa sul campo, è quasi immediata.
Quello che distingue veramente il rugby maschile da quello femminile è l’approccio al gioco: è uno sport complicato regolato da moltissime norme, noi femmine cerchiamo di capirle prima di metterle in pratica, analizzarle e studiarle prima di farle nostre; il gioco maschile è un gioco di forza e di potenza, fatto prima con i muscoli e poi con la testa. Le nostre partite sono uno spettacolo meno di impatto ma più raffinato e strategico.
Visione questa condivisa dallo stesso Veleno, che esce dal campo per un fugace saluto. È rimasto di poche parole, come lo ricordavo, ma due parole sul ruolo che riveste me le concede: “oggi, anche per via della differenza di età che mi separa dalle ragazze, ho un rapporto più allenatore-giocatrici, anche se arrivano sempre più spavalde e con meno senso dell’autorevolezza. Il panorama rugbistico offre oggi loro maggiori possibilità di crescita. Per quanto mi riguarda, tra le tante soddisfazioni, un piccolo trofeo lo porto sulla carta di identità: alla voce professione adesso c’è ALLENATORE!”
E io, dopo dieci anni, ho capito cosa siete state per me Velenose? Cosa mi portava lì su quel campo, consapevole di essere senza il minimo talento o attitudine? Era forse quello che non si può trovare in nessuna palestra al mondo, la luce del sole che infuoca le mura in lontananza nell’ora del tramonto estivo o il profumo dell’erba che dalle narici si espandeva nella testa e mi rimetteva in pace con il mondo? Care Velenose, per me siete più di un aneddoto da raccontare, allenarmi con voi è stata un’esperienza di identità e di appartenenza, di ruoli, di regole, di gerarchie e di complicità e sorellanza, è stata un’esperienza autentica e sincera.
Dice Henry Blaha che il rugby è uno sport bestiale giocato da gentiluomini e, mi permetto di aggiungere senza alcun dubbio, da gentildonne. Buon compleanno Velenose!